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Che cosa può succedere a Singapore fra Trump e Kim

Il commento di Domenico Cacopardo sul vertice a Singapore  Il G7 svoltosi nella lussuosa mansion di La Malbaie, Québec, Canada, appena terminato è sprofondato nella pattumiera della storia, tranne che per il fatto, inusuale, che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dopo avere dichiarato che il primo ministro canadese Justin Trudeau è un debole…

Il G7 svoltosi nella lussuosa mansion di La Malbaie, Québec, Canada, appena terminato è sprofondato nella pattumiera della storia, tranne che per il fatto, inusuale, che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dopo avere dichiarato che il primo ministro canadese Justin Trudeau è un debole e un mentitore (con riferimento al contenuto della dichiarazione finale), ha ritirato la sua firma.

Ora, alla ribalta c’è il vertice di Singapore, tra lo stesso Trump, il presidente sudcoreano Moon Jae-in e l’ospite più atteso e importante, il nordcoreano Kim Jong-un. Un contesto nel quale l’evidente complesso di inferiorità (che spinge Trump a maltrattare i componenti degli establishment) non avrà modo di manifestarsi per il semplice fatto che se si stringesse un’intesa, essa costituirebbe il più grosso successo della politica estera americana dopo la firma, a Parigi, il 27 gennaio 1973 del cessate il fuoco nella guerra del Vietnam.

A Singapore, tutto è possibile a partire dall’abbandono del tavolo del negoziato da parte di uno dei due contendenti. Questo, peraltro, è il momento in cui le bilie non sono ancora rotolate sul tavolo verde e, perciò, si può formulare qualche riflessione non strettamente collegata o dipendente da Singapore e dalle notizie che verranno da lì.

Se torniamo indietro di 5, solo 5 anni, vediamo un mondo nel quale la prima potenza economica era l’Unione europea, un’entità la cui collaborazione era così ambita da indurre gli Stati Uniti e il Canada di proporre la creazione di un immenso mercato comune transatlantico.

L’Europa, però, era un nano politico, un’istituzione contraddittoria nella quale gli interessi dominanti erano quelli della nazione più forte (la Germania) e dei suoi alleati Nord-europei. La Francia di François Hollande non aveva alcuna pretesa di leadership e si accontentava di essere una specie di ruota di scorta dell’accettata egemonia teutonica. E l’Italia, in qualche modo, seguiva rassegnata, condizionata come non mai da un debito pubblico in crescita, nonostante la cura da cavallo impartitale da Mario Monti, visto più come un gauleiter che come un primo ministro italiano.

I rapporti interni all’Europa si sono un po’ modificati con l’arrivo prima di Matteo Renzi, schierato sul fronte del riformismo e della modernizzazione del suo Paese, e dopo e soprattutto con l’arrivo di Emmanuel Macron, la cui gioventù accompagnata da un training ineguagliato (almeno tra i presidenti e i capi di governo), gli ha consentito di avviare una serie di iniziative che gli hanno consentito di restituire a Parigi un certo peso.

Ma, dal 2013 in poi sono accaduti vari cambiamenti di scenario. Essi hanno riguardato la Cina e la Russia. Queste due nazioni hanno stipulato un trattato di cooperazione politica, economica e militare di un valore mai visto prima, tale da portare benefici, sviluppo e potenza a entrambi i contraenti. Le sanzioni stabilite dall’Occidente nei confronti della Russia dopo le vicende ucraine non solo hanno accelerato la definizione dell’intesa di cui sopra, ma hanno anche costituito l’occasione che Vladimir Putin (la cui mente strategica ha avuto modo di dispiegare quasi tutti gli effetti desiderati, salvo i prossimi, di cui diremo) aspettava.

Sta di fatto che l’Europa è entrata in un’altra crisi, in questo caso soprattutto politica. Il Regno Unito ha votato l’uscita dall’euro e s’è innescata la Brexit. Come sostiene un mio amico italiano che vive a Londra era impensabile che i britannici continuassero ad accettare una istituzione diretta o nelle mani del nemico che avevano sconfitto, con un elevatissimo prezzo di sangue, due volte. Per converso, si dimostrava che, come sempre le accade da due secoli a questa parte, la Repubblica federale e i suoi cittadini non hanno la cautela del limite, il senso dell’opportunità, la delicatezza di non tirar fuori gli stivali per battere il passo sulle strade d’Europa. In qualche modo, anche l’Italia, oggi, rappresenta un elemento di grave crisi comunitaria.

Mentre svanisce il G7 e si manifesta agli occhi del pianeta l’esistenza di tre sole superpotenze politiche e militari, dirette rispettivamente da Trump, Xi Jinping e Putin, l’Europa è di fronte alle proprie debolezze e alle proprie contraddizioni. E Putin, nello sfondo, non è estraneo a questo ridimensionamento.

L’Italia, poi, non esiste se non come problema che aggrava tutti gli altri. La questione che noi europei oggi dovremmo porci è cruciale e indifferibile: andare avanti? E si può andare avanti solo mantenendo in vita la formazione odierna? O divorziare, azzerando settant’anni di politiche comunitarie, alti e bassi, speranze e delusioni (basti pensare alla fallita Costituzione).

Il dilemma ci pone innanzi a scelte complesse. O questa nuova classe dirigente riesce a entrare in sintonia con la realtà che ci circonda o finiremo male, vaso di coccio tra potenze reali, vascello zavorrato dal terzo debito pubblico del mondo provocato però interamente, non va dimenticato, dalla precedente classe dirigente politica italiana. Il nuovo appuntamento è a fine mese, per il vertice europeo.

Senza aspettarci miracoli, contiamo sulla limitazione dei danni.

(articolo pubblicato sul quotidiano Italia Oggi)

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