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Che cosa penso di Capitani e Capitane. L’opinione di Cazzola

L'intervento di Giuliano Cazzola

 

‘’Pietà l’è morta’’ è il titolo di una canzone di guerra. Non è una marcia trionfale, non ha nulla della retorica patriottarda. E’ una melodia triste, corale in cui si innestano parole di dolore, ma anche di consapevolezza e di coraggio. Nata sull’aria di un canto alpino della Grande Guerra il testo venne riscritto dal comandante partigiano, Nuto Revelli, nel 1944. Con lo stesso titolo, Francesco De Gregori ha composto una ballata in memoria del bombardamento del Quartiere San Lorenzo del 19 luglio 1943.

Mi sono venute in mente queste note e queste parole, riflettendo sulla vicenda della Sea-Watch: l’ultima battaglia navale di Capitan Salvini. La questione dei profughi e dei migranti è complessa, soprattutto perché si lascia credere all’opinione pubblica che è facile (basta un po’ di fermezza) per venire a capo di un problema che è invece strutturale e irrisolvibile.

Di clandestini neri ne sbarcano sulle nostre coste tutti i giorni, ma al Capitano basta giocare alla roulette russa e fare la faccia feroce di tanto in tanto per tener viva l’attenzione dei suoi sostenitori. Se qualche barcone arriva sulle nostre coste in silenzio, senza farsi pubblicità in tv e senza avvalersi dell’aiuto delle Ong (si corrono meno rischi ad affidarsi agli scafisti), Salvini è tanto generoso da chiudere un occhio e non ha difficoltà a fingere di non vedere e a voltarsi dall’altra parte (in realtà vede e sa tutto grazie all’inseparabile Smartphone).

Se si azzardano a sfidarlo, però, non ci vede più ed è pronto a schierare la forza, perché nessuno è autorizzato a rompergli quegli attributi ereditati dal ‘’celodurismo’’ delle origini leghiste. Così abbiamo assistito ad un paio di settimane di ukase, veti sulla pelle di una quarantina di poveracci accampati a bordo di una nave che (a proposito della ‘’pacchia’’) non somigliava per nulla ad un transatlantico da crociera. Poi alla fine si è arrivati alla solita spartizione tra i Paesi disponibili, con tanto di accuse di impotenza all’Unione europea e di menefreghismo all’Olanda che non ha voluto interessarsi delle persone raccolte da una nave battente la sua bandiera.

Il comandante della Sea-Watch Carola Rackete è stata insultata in diretta dal ministro di Polizia ed indicata all’indignazione popolare come se la sua insistente propensione a salvare vite umane fosse un atto di pirateria. Ma non è questo l’aspetto che mi turba e preoccupa di più. Il dramma di queste giornate, come di tante precedenti (immaginiamo pure di altre successive) sta proprio nella ‘’morte della pietà’’ in una parte crescente dell’opinione pubblica.

Al di là di ogni considerazione politica o giuridica, sulla tolda di quella nave, arrostiti dal sole c’erano dei poveracci, appartenenti all’ultimo girone dei ‘’dannati della terra’’. Si può decidere di non accoglierli, ma è immorale incutere e incoraggiare nella gente comune sentimenti di indifferenza, se non addirittura di fastidio, di odio.

Basta scorrere la suburra dei social o più semplicemente allungare le orecchie nei supermercati o sui bus. Il fatto che siano in pericolo delle vite non interessa più: se la sono cercata loro; a noi portano disordine, malattie e delinquenza. Che affoghino pure, non è un problema nostro. Anzi dobbiamo farci sentire, dimostrare che l’Italia non è la discarica dell’Europa.

In sostanza, l’onore nazionale si riscatta facendo la faccia feroce con chi non può difendersi. Visto che, nel 1940, non siamo stati capaci di ‘’spezzare le reni’’ alla Grecia, spezziamole alla Sea-Watch, senza esitare ad affondarla, così imparano tutte le ONG e tutti coloro che fanno predicazione di ‘’buonismo’’. Le storie di queste persone non ci riguardano; i motivi per cui fuggono dai loro Paesi, le tribolazioni del viaggio, quello che devono subire nei campi di concentramento libici sono fatti loro.

A noi, però, non sarà consentito di affermare che non lo sapevamo, che non ritenevamo tanto grave la situazione, quando ce ne chiederanno conto, in nuovo processo di Norimberga. Perché come Buchenwald è a due passi da Weimar, la Libia è dall’altra parte del Canale di Sicilia. Spesso ci chiediamo come siano potute avvenire nel cuore dell’Europa persecuzioni e stermini a sfondo razziale, come la Shoah.

Io non sono un visionario che intende paragonare il risorgente razzismo in Europa alla tragedia della Shoah (anche se africani di Shoah ne hanno subite ben più di una, per il colore della loro pelle). Ma quando la razionalità cede il passo al pregiudizio e all’indifferenza non si può mai sapere quale sia l’approdo finale. Il sonno della ragione genera sempre dei mostri, siano essi di modeste o di imponenti dimensioni e ferocia. La persecuzione degli ebrei in Europa ha una storia millenaria: il nazismo trovò la strada spianata dai pogrom, le conversioni forzate, gli autodafé, le accuse infondate, le torture e i ghetti.

Ma la ‘’soluzione finale’’ del Fuhrer ebbe le sue prime vittime negli ebrei profughi che provenivano dall’Est, considerati degli immigrati indesiderabili. Addirittura, nel 1938, ad Evian venne convocata una conferenza internazionale (vi parteciparono 32 Paesi) promossa da Franklin Delano Roosevelt, dove Hitler pose il problema di distribuire 150mila ebrei (provenienti dall’Est) che non voleva più in Germania. Ne scrive Siegmund Ginzberg nel suo saggio ‘’Sindrome 1933’’ (Feltrinelli). Hitler minacciò di far saltare il negoziato perché c’erano dei ‘’Paesi terzi che di punto in bianco rifiutano di accogliere gli ebrei accampando ogni possibile scusa’’. Come a dire – sostiene Ginzberg – se non ve li accollate li stermino. E conclude l’autore: ‘’Fossero stati in mare avrebbe detto: se non li prendono tutti un po’ per uno, non li faccio sbarcare, piuttosto affoghino’’. Ma il suo monito non si ferma qui: ‘’il linguaggio becero, la maschera da cattivo, le sparate retoriche, le iperboli sono una componente costante del linguaggio populista. Servono a ‘’parlare come il popolo’’, a ‘’farsi capire dal popolo’’. In sostanza, a ripetere all’infinito ciò che un popolo, sobillato, vuole sentirsi dire.

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