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Turchia Siria

Che cosa non si dice sull’offensiva della Turchia contro i curdi. Il commento di Polillo

Il commento di Gianfranco Polillo

Si può non essere d’accordo con la proposta, avanzata da più parti, di bloccare le vendite di armi alla Turchia? Certo che no. Di fronte allo squilibrio delle forze in campo, basta pensare al dominio dell’aria da parte dell’aviazione di Erdogan, non è certo necessario rafforzare il potenziale di fuoco dell’invasore. Del resto abbondantemente rifornito negli anni precedenti. Ma sarà anche sufficiente? Anche in questo caso: certo che no. Quella proposta è tesa soprattutto ad un salvataggio della propria coscienza, ma non sposta di un millimetro la situazione sul fronte della guerra.

Ed allora che fare? Tante le proposte in campo: dall’istituire una “No fly zone“, protetta da un gruppo di Paesi volenterosi, per evitare lo sterminio dal cielo, alla definitiva espulsione della Turchia dal novero dei Paesi che hanno richiesto la loro adesione all’Unione europea. Fino all’invio di un contingente militare europeo che sostituisca il ritiro americano. Accompagnando queste misure con l’invio di armi ai resistenti curdi affinché – se indispensabile – sia guerra vera e non sterminio di innocenti. La cui colpa principale è stata quella di aver lottato per per una società atipica rispetto ai modelli prevalenti in quella parte di mondo. E aver dato un enorme tributo di sangue nella lotta contro l’Isis.

Soluzioni, naturalmente, rischiose. Nel grande gioco della geopolitica mediterranea, ogni piccolo movimento può favorire il rafforzamento della presenza russa in tutta la zona. Si rischierebbe, pertanto, di fare il gioco di Wladimir Putin, che ha già fornito ad Erdogan sofisticati missili balistici, provocando la dura, per quanto inutile, reazione americana. Ma sono rischi che l’Europa deve correre, se vuole finalmente cominciare a prendere atto che lo scenario, che la riguarda, in prima persona, è cambiato. Altrimenti la nuova guerra siriana sarà solo l’inizio di un domino, di cui è difficile prevederne l’esito finale. Denso di conseguenze che avranno il volto dei milioni di profughi, destinati a riversarsi su suoi confini. La prima, ma non per questo, necessariamente la più drammatica.

Possiamo pensare di Donald Trump tutto il male possibile. Ridicolizzare alcune sue prese di posizione. Come quella che accusava i curdi di non aver aiutato gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. Tutto bene. Ma a condizione di non sparare su un falso bersaglio, che nasconde le ragioni più profonde del crescente disinteresse americano per questa parte dello scacchiere internazionale. Non siamo più nel 1928, quando per la prima volta le grandi compagnie petrolifere americane, con il red line agreement, parteciparono alla spartizione dei grandi giacimenti petroliferi nel Medio Oriente. Allora fu stabilito che il capitale della Turkish Petroleum Company, che aveva il monopolio dello sfruttamento, fosse diviso, in parti uguali tra francesi, inglesi, olandesi ed americani. Lasciando un piccolo 5 per cento, nelle mani di Calouste Gulbenkian: l’uomo d’affari armeno che lo aveva propiziato.

Da allora due sono state le coordinate della politica estera americana, riguardo al Medio Oriente ed il Mediterraneo. Da un lato il confronto anche duro con l’Urss, quando ancora esisteva la patria del socialismo realizzato. Dall’altro la difesa dei propri interessi in campo petrolifero. Allora essenziali, data la relativa dipendenza, per garantire la propria crescita economica. Difesa talmente sentita da determinare la minaccia di un intervento comune, con gli odiati “comunisti”, contro francesi, inglesi ed israeliani. Quando nel 1956 vi fu l’occupazione militare del canale di Suez, da parte di questi ultimi, nel disperato tentativo di impedire al regime di Gamāl Nasser, propugnatore di un nazionalismo aperto alle istanze sociali, di consolidarsi. Occupazione che rischiava di alterare i vecchi equilibri, anche in seno all’Occidente.

C’era soprattutto un elemento che faceva la differenza. Allora l’Europa, con i suoi conflitti, rappresentava il centro effettivo della storia. La sponda atlantica aveva la prevalenza, nonostante la guerra del Vietnam. Sul versante del Pacifico, una Cina ancora accartocciata su se stessa e, semmai, conflittuale con i “revisionisti” di Mosca, era tutt’altro che “vicina”. Almeno nella realtà geopolitica. Salvo la suggestione esercitata dal Presidente Mao su sparuti gruppetti di antagonisti. Oggi non assistiamo certo alla “fine della storia”, come teorizzato da Francis Fukuyama, ma certo alla fine di “quella storia”. Con il pendolo che si è spostato in quest’altro quadrante del mondo.

Anche perché per gli Usa il petrolio del Medio Oriente non ha più il valore di un tempo. Da importatori netti, grazie alle tecniche dello shale oil, ottenuto dagli scisti bituminosi, sono divenuti grandi esportatori. Nel Mediterraneo mantengono alcuni presidi strategici, ma sono sempre meno disposti a sacrificare vite americane in quel ruolo di supplenza finora mantenuto a favore quasi esclusivo degli europei. Ai quali spetta di colmare il vuoto che il loro ritiro sta lasciando.

Ed ecco allora cosa c’è dietro l’angolo della sporca guerra turca contro un popolo in armi. Intervenire in loro difesa non è solo un atto di solidarietà, ma la dimostrazione che l’Europa sta finalmente comprendendo che non c’è più alcun ombrello in grado di proteggerla. Da oggi in avanti dovrà fare da sola. Ed agire con la necessaria tempestività per evitare il peggio.

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