A proposito delle “autonomie differenziate” lo schema è sempre lo stesso. La contrapposizione tra “apocalittici e integrati”. Il conflitto che, dai tempi dell’ingresso in campo delle televisioni commerciali, ha sempre connotato il dibattito tra gli addetti e poi condizionato l’evoluzione effettiva del sistema. Con costi maggiorati rispetto a quanto avveniva negli altri Paesi. Si pensi solo ai danni recati nello stop imposto (Enrico Berlinguer da un lato, Ugo La Malfa dall’altro) avvento del colore. Oggi ci risiamo. Purtroppo su temi che hanno una portata ben diversa ai fini dei futuri equilibri nazionali.
Il problema non è semplice da impostare. L’Italia di oggi è un Paese spaccato come una mela. Le principali regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia) hanno, da tempo, superato la crisi del 2007-2008. Le relative aziende si sono convertite, inserendosi pienamente nelle grandi filiere produttive. Agiscono soprattutto sui mercati esteri, forti di un know how e di una flessibilità a prova di bomba. Nonostante il rallentamento del commercio internazionale, il loro fatturato continua a crescere. L’occupazione aumenta ed il tasso di disoccupazione è quasi quello frizionale. Attirano uomini (i flussi di migrazione interna) e capitali dal resto degli altri territori. Soprattutto il mezzogiorno.
Per contro il resto dell’Italia è ancora avvolto nella crisi. Qui tutti i relativi parametri sono fuori controllo. Le tradizionali attività, quando va bene, riescono solo a sopravvivere. Le strutture pubbliche locali (significativo il caso delle differenze fra Roma e Milano) non sono in grado di assicurare nemmeno l’ordinaria amministrazione. Vi sono, naturalmente, eccezioni (la Basilicata, con il suo petrolio), ma nel complesso il segno “meno“ è dominante. Soprattutto, serpeggia la paura. L’idea cioè che nel nuovo assetto federalista, a rimetterci, in termini di trasferimenti, siano proprio le terre più svantaggiate. L’insistenza con cui, da parte di taluni, si richiede un’intervento, tutt’altro che notarile da parte del Parlamento, mira, appunto, ad esorcizzarla.
Fin qui la fotografia. Come ricomporre il puzzle resta il grande problema. Due i pericoli da evitare. Che il piombo nelle ali, rappresentato da quelle realtà geografiche che non riescano a camminare con le proprie gambe, faccia alla fine deragliare la stessa piccola locomotiva del nord. Se tuttavia quest’ultima si distacca dal resto dei vagoni, in una corsa solitaria, l’ipotesi di una complessiva regressione non può essere esclusa. Da qui le resistenze, i rinvii, gli appelli un po’ retorici in difesa di valori branditi come asce acuminate.
Il modello del nord è export led. Dominato dalle esportazioni verso l’estero. Il forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ne dimostra la forza, ma anche i limiti. L’eccesso di risparmio, che ne deriva, non trova occasioni d’investimento all’interno di quel modello. Le singole aziende hanno più o meno saturato la loro capacità produttiva, date le condizioni del mercato in cui sono inserite. Possono investire per accrescere i propri livelli di produttività, e quindi rispondere meglio alle spinte competitive. Ma i livelli d’investimento richiesti, sono comunque una percentuale ridotta delle loro capacità di autofinanziamento. Nelle condizioni date, l’eccesso di risparmio ė destinato, pertanto, a seguire la via dell’estero.
Il possibile riscatto del centro-sud passa, invece, inevitabilmente, per un rilancio della domanda interna. Dall’inizio della crisi, salvo qualche limitata eccezione, ai minimi storici. Il compromesso interregionale diventa, pertanto, più facile in una prospettiva di sviluppo. Che, a sua volta, richiede politiche adeguate. A partire da quella riforma fiscale che rappresenta la madre di tutte le battaglie. Da realizzare anche in deficit, dopo un aperto confronto con la Commissione europea, se non vi sono alternative. Si stemperebbero, così, le reciproche diffidenze. Anche sui temi più sensibili, come quelli dell’istruzione. Troppo spesso adombrati per occultare riserve di carattere sistemico.
Ė, infatti, evidente che i fabbisogni formativi sono profondamente diversi. Un conto sono gli skill da garantire a chi è completamente immerso in una realtà produttiva, che ha il mondo come suo orizzonte operativo. A partire dalla completa padronanza delle lingue. Altra cosa è una formazione più tradizionale. Differenze che già si vedono nella diversa specializzazione dei grandi centri universitari. O nella fuga all’estero per colmare lacune insopportabili. L’uniformità verso l’alto sarebbe preferibile. Ma l’istruzione si nutre del giusto equilibrio tra domanda ed offerta. E la prima, altri non è, che la derivata del sottostante retroterra storico sociale. Anche, in questo campo, si può trovare, quindi la giusta intesa. Rinunciando a piantare le proprie bandierine identitarie. Di una cosa occorre, tuttavia, avere una generale consapevolezza. Lo status quo non è più difendibile, se si vuole conservare un minimo di speranza per un futuro migliore.