Non so se da buon figlio di moroteo, com’era suo padre Bernardo, e moroteo lui stesso, anche se approdato alla politica quando lo statista democristiano era già morto, Sergio Mattarella sia bravo come Aldo Moro anche nell’imitare nelle voci e nelle smorfie colleghi e non di partito. Di sicuro ne ha ereditato quello di cui si è appena vantato con i professori dell’Università romana della Sapienza e ha definito “una buona dose di autoironia” indicandola come “ingrediente” o “antidoto” al rischio, per chi “esercita potere”, di farsene troppo “condizionare”.
Persino negli ultimi giorni di vita, quando lottava disperatamente perché i suoi amici di partito e alleati lo sapessero e volessero sottrarre alla sentenza di morte emessa contro di lui dalle brigate rosse, che lo tenevano prigioniero in un covo a Roma dopo averne sterminato la scorta vicino casa, Moro non rinunciò all’ironia prendendosela, in particolare e addirittura, con Papa Montini: il suo amico Montini. Che aveva chiesto pubblicamente ai terroristi, sia pure “in ginocchio”, di rilasciare il presidente della Dc “senza condizioni”. Non si è sprecato molto, osservò pressappoco Moro in una delle sue lettere a proposito del Pontefice, forse pensando anche lui ad una manina, diciamo così, dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti in quel messaggio toccante ma politicamente inutile alla causa della sua liberazione, per come si erano ormai messe le cose nella gestione un po’ pasticciata, a dir poco, della cosiddetta linea della fermezza opposta dal governo alla sfida dei terroristi.
A distanza, direi, di poche ore dall’autoironia raccomandata, anzi riproposta da Mattarella, che nei mesi precedenti vi aveva già accennato in un incontro con una scolaresca, abbiamo assistito a due prove di autoironia, appunto, di una certa efficacia nella lettura delle vicende politiche italiane, che non brillano abitualmente di chiarezza e trasparenza.
“Anch’io cerco la mia strada”, ha detto Mario Draghi intrattenendosi con dei ragazzi, chiamiamoli così, a Rona. Il presidente del Consiglio non poteva esprimere meglio, con autoironia appunto, le tentazioni dalle quali è preso in questo periodo: tenersi rigorosamente estraneo alla successione a Mattarella o contribuirvi in qualche modo, sino a candidarsi anche lui o lasciarsi candidare per un trasferimento da Palazzo Chigi sgradito naturalmente ad altri possibili concorrenti al Quirinale: per esempio, Silvio Berlusconi.
Già comico professionale di suo, con una visione quindi persino esasperata dell’ironia, Beppe Grillo ha profittato di un collegamento con un convegno sull’energia per “dileggiare” – ha titolato la Repubblica – il presentissimo presidente del suo MoVimento Giuseppe Conte. Che egli ha definito – dopo una sparata ormai esaurita contro la Rai per un giro di nomine non gradito – “un gentleman” praticamente innocuo, tra i più specializzati in “penultimatum”.
In un tentativo mal riuscito di essere anche lui ironico Conte ha reagito sottolineando il tipo “non ortodosso” di “comunicazione” di quello che pur sempre è il suo “garante”, in senso statutario. E che certamente – deve ammetterlo il professore di Volturara Appula – con le sue prese in giro non gli dà una mano mentre l’ultimo sondaggio elettorale di Winpoll attribuisce alle 5 Stelle l’11 per cento dei voti, a rischio di sorpasso anche da parte di una Forza Italia salita al 10,8.