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Giuseppe Conte

Perché è folle la guerra di Conte alla Rai su Maggioni al Tg1

Che cosa dice e fa Conte sulla Rai dopo la nomina di Monica Maggioni alla direzione del Tg1

 

La buonanima di Ettore Bernabei era convinto, in perfetta buona fede, per carità, di avere reso la Rai nella lunga stagione nella quale la diresse lo specchio dell’Italia, per quanto egli fosse notoriamente e orgogliosamente l’uomo di fiducia di Amintore Fanfani: un leader politico tutto tondo, come pochi altri del suo tempo, e perciò capace di attirare attorno a sé grandi entusiasmi e altrettanto grandi avversioni. Egli mancò il Quirinale nel 1971 solo perché parte consistente della sinistra e del suo stesso partito, la Dc, lo aveva scambiato, a torto o a ragione, per una potenziale edizione italiana del generale francese Charles De Gaulle, morto l’anno prima. “Una cosa semplicemente ridicola”, mi disse dopo qualche anno sul terrazzo di casa, a Roma, parlando di quella vicenda e scherzando lui stesso sulla propria statura fisica con uno dei suoi pennelli da pittore calato giù di fretta dalla testa al ginocchio. “Nano maledetto, non sarai mai eletto”, aveva scritto un parlamentare sulla scheda che il presidente della Camera Sandro Pertini aveva dichiarato “nulla” omettendo civilmente di leggerla, ma con Fanfani sedutogli accanto come presidente del Senato, terreo in viso per l’inaspettato insulto.

Il fatto è che Fanfani, e di riflesso il buon Bernabei, era convinto di essere il prototipo del buon italiano. Come Gianni Agnelli avrebbe preso l’abitudine di dire che gli interessi della sua Fiat coincidevano con quelli del Paese, così i fanfaniani pensavano dei rapporti fra il loro leader e l’Italia. Erano, fra l’altro, i tempi in cui la Dc riusciva a portare alle urne con gli altri partiti un bel po’ di elettori raccogliendone la maggioranza davvero: mica come i partiti di oggi, a cominciare dai grillini. Che ancora parlano, come ha appena fatto Giuseppe Conte, degli undici milioni di voti raccolti nel 2018 ritenendo di averli ancora in tasca tutti, e di doverli rappresentare uno per uno, nonostante i deputati e i senatori persi nel frattempo per strada.

Bernabei, per tornare a lui, riuscì a fare della Rai semplicemente lo specchio più della politica dei suoi tempi che del Paese. Che poi, a pensarci bene, è la stessa cosa, di per sé naturale, non disdicevole. Il guaio è che la politica nel frattempo è scesa di qualità e quantità, portandosi appresso tutto il resto. Capita pertanto che in un’azienda complessa come quella di viale Mazzini, specchio davvero della politica, si possa, anzi si debba assistere allo spettacolo di un ex presidente del Consiglio che le dichiara “guerra”, come hanno titolato un po’ tutti i giornali, ordinando agli uomini e alle donne del suo movimento di disertarne i canali per avere praticamente subito il presunto torto politico – in un avvicendamento di cariche interne – di vedere sostituire alla direzione del Tg1 Giuseppe Carboni, nominato ai suoi tempi di Palazzo Chigi, con Monica Maggioni. Il cui curriculum professionale non meritava e non merita francamente questa gaffe politica, a dir poco, di un ex – ripeto – presidente del Consiglio in rivolta. Al quale si sono aggiunti i soliti tifosi delle curve di carta attribuendo con titoli, fotomontaggi e simili alla Maggioni paternità e maternità politiche di segno piddino, e in particolare di tendenza Paolo Gentiloni: un altro ex presidente del Consiglio, ora commissario europeo e- incidentalmente- tra i quirinabili possibili o immaginari.

Inorridisco, francamente, di fronte a questo spettacolo, per quanto ne abbia viste, sentite e persino vissute, attorno e nella stessa Rai, ma anche nel campo più generale dell’informazione, di tutti i colori. Inorridisco ancora di più se penso agli effetti già annunciati o minacciati di questa “guerra alla Rai” da parte di Conte sulla cosiddetta corsa al Quirinale. Che pure sembrava appena rischiarata dallo stesso Conte proponendo di mettere nel paniere negoziale della parte residua di questa anomala legislatura – “la più pazza del mondo”, si è detto e scritto da molti- qualche buona modifica alla Costituzione.

Sarebbe bastato e ancora basterebbe inserirvi la non rieleggibilità immediata del capo dello Stato e l’abolizione del divieto impostogli di sciogliere le Camere nell’ultimo semestre del suo mandato, entrambe auspicate dal presidente uscente con i suoi recenti richiami alle proposte analoghe avanzate dai predecessori e colleghi di partito Antonio Segni e Giovanni Leone, per chiudere nel migliore dei modi la partita quirinalizia diversamente esposta al rischio del caos. Mattarella potrebbe accettare una conferma davvero ultima ed eccezionale per garantire una simile riforma, lasciare la propria successione al nuovo e più legittimato Parlamento e garantire infine la prosecuzione del governo di Mario Draghi in un’emergenza pandemica per niente finita. Il classico uovo di Colombo, come l’ho già definito, che non vorrei fosse già stato rotto dallo stesso Conte in una crisi pur politica di nervi contro la solita lottizzazione…. degli altri. Le proprie, si sa, sono sempre migliori.

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