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Che cosa ha in mente il premier Conte? I Graffi di Damato

Fatti, indiscrezioni e scenari su Palazzo Chigi e dintorni con il premier Giuseppe Conte in primo piano

 

Pur relegata in fondo, a sinistra, di una prima pagina giustamente impostata, dal loro punto di vista, sulla venerazione dello scomparso Francesco Saverio Borrelli, i cui estimatori dimenticano i dubbi espressi, di fronte alla corruzione sopravvissuta alle sue indagini di “Mani pulite”, se fosse valsa la pena demolire in quel modo, praticamente, un intero sistema politico sbrigativamente chiamato in senso dispregiativo “Prima Repubblica”; pur relegata, dicevo, in fondo, a sinistra, della prima pagina, quelli del Fatto Quotidiano hanno fatto capire con una vignetta spietata di Riccardo Mannelli quanti sospetti e malumori corrano fra i grillini sul conto di Conte. E scusate il bisticcio delle parole.

Quel “pallino gonfiato”, neppure pallone, dato al presidente del Consiglio la dice non lunga ma lunghissima sulle condizioni in cui si è messo Giuseppe Conte con gli ultimi posizionamenti. Il più significativo dei quali resta la lettera di pochi giorni fa a Repubblica in cui praticamente il professore ha elencato le condizioni tutto sommato ovvie, e quindi modeste, alle quali potrebbe essere disposto a succedere a stesso con un governo diverso, magari anche tecnico, nel caso di una crisi che, a questo punto, non si capisce più bene quanto gli prema evitare, e quanto invece non gli giovi accelerare.

Le modiche condizioni poste dal presidente del Consiglio nella “presa d’atto” -ha scritto a Repubblica- di “congetture su scenari futuribili e nuove maggioranze di governo” che lo “coinvolgono personalmente” sono “il rispetto delle istituzioni, la trasparenza nei confronti dei cittadini, la fedeltà agli interessi nazionali”. I quali ultimi -guarda caso- sono quelli che il suo vice presidente leghista Matteo Salvini è accusato da sinistra in questi giorni, a proposito di quella che proprio Repubblica chiama “Moscopoli”, di avere violato o macchiato trattando o lasciando trattare da improvvidi amici finanziamenti russi, in rubli o dollari, al proprio partito. E -sempre, guarda caso- ad un Salvini restio a sottoporsi, chissà perché, a un dibattito parlamentare per difendersi si è sostituito lo stesso Conte, fra il plauso dell’opposizione di sinistra e l’oggettivo spiazzamento del leader leghista, prenotandosi al Senato per mercoledì prossimo.

A dispetto, direi, dell’assicurazione di Conte, sempre in quella lettera a Repubblica, della sua indisponibilità solo a “operazioni ambigue”, la situazione non è francamente delle più chiare e limpide. E’ una situazione, direi, abbastanza ambigua, dalla quale il presidente del Consiglio, se lo volesse, potrebbe anche uscire accelerando un chiarimento con qualcosa che nel vecchio vocabolario politico si chiamava “verifica” e che, in una concezione più “trasparente” dei rapporti col pubblico, come li chiama lo stesso Conte, potrebbe essere l’apertura di una crisi.

A caricare ulteriormente di ambiguità la situazione è uno spiffero, chiamiamolo così, colto nella nota politica di Massimo Franco pubblicata ieri sul Corriere della Sera. Che dispone del quirinalista più navigato sulla piazza, Marzio Breda, impegnato anche in questi giorni a seguire col consueto scrupolo gli incontri e i colloqui del presidente della Repubblica.

Fra questi incontri ha fatto maggiormente notizia quello chiesto e ottenuto al Quirinale dal sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, già inquieto di suo da qualche tempo ma ora di più per diverse e note ragioni. Egli ha, fra l’altro, sondato il presidente Mattarella sulla sua disponibilità a sciogliere anticipatamente le Camere in caso di crisi, come vorrebbe Salvini e come invece non vorrebbero i grillini per la loro evidentissima crisi di consenso, visti i 6 milioni di voti e più perduti nelle urne del 26 maggio scorso.

Che cosa abbia esattamente risposto Mattarella non si è ben capito lì per lì, a parte l’ovvia riserva di verificare, una volta aperta la crisi, tutte le strade possibili per risolverla. Ma lo si è capito meglio, visto l’ambiente abitualmente bene informato del Corriere della Sera sul terreno quirinalizio, quando si è letto, testualmente, nella nota già accennata di Massimo Franco che Salvini aveva abbassato i toni della polemica, poi tornati, in verità, a rialzarsi, perché consapevole che “sarebbe stato un altro governo a portare l’Italia alle urne”: un altro governo, ma soprattutto, direi, un altro ministro dell’Interno, da cui dipendono le operazioni elettorali.

In effetti non è per niente scontato che il capo dello Stato lasci gestire le elezioni anticipate al governo che si è dimesso, o è stato fatto dimettere da una sua componente, proprio per arrivarvi e non ad un altro appositamente allestito per garantire meglio una certa neutralità in campagna elettorale.

Il precedente più illustre in materia è quello del 1987, quando Bettino Craxi, costretto alla crisi dal segretario della Dc Ciriaco De Mita, chiese da Palazzo Chigi al pur amico presidente della Repubblica Francesco Cossiga di gestire lui le elezioni anticipate volute dall’alleato. Pur a malincuore, Cossiga gli disse no e mise in pista per le elezioni il sesto e ultimo governo Fanfani, trasferendolo dalla Presidenza del Senato.

In questo caso a gestire le elezioni anticipate potrebbe essere un secondo e chissà se ultimo, e di che tipo, governo Conte: il “pallino gonfiato” sfottuto dal Fatto Quotidiano in fondo a sinistra, ripeto, della prima pagina di un giornale dedicato alla memoria e santificazione di Borrelli. Di cui pure nel marasma di Tangentopoli qualcuno immaginò l’approdo a Palazzo Chigi, dopo che l’allora capo della Repubblica di Milano si lasciò scappare che se, chiamato dal Paese, nessuno avrebbe potuto sottrarsi al dovere di soccorrerlo. Ah, corsi e ricorsi della politica.

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