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Haftar

Che cosa cela il caso dei pescatori italiani rapiti in Libia

Il caso dei 18 pescatori italiani rapiti in Libia. L’approfondimento dell’analista Michela Mercuri

 

“In cambio dei marittimi siciliani, l’Italia ci consegni i calciatori libici detenuti”. Sono state queste le parole pronunciate pochi giorni fa dal vice presidente del Governo di Accordo Nazionale (GNA) Ahmed Maitig, che si è detto direttamente impegnato per trovare una soluzione il più velocemente possibile.

Parole che da un lato hanno riacceso la speranza nelle famiglie dei 18 pescatori rapiti in Libia il primo settembre di quest’anno, ma che mettono in una posizione difficile il governo italiano. I prigionieri libici in questione, infatti, sono 4 persone arrestate nel 2015 a Catania, processate in Corte di assise e in Cassazione, condannate a 30 anni come trafficanti di migranti e assassini, avendo causato la morte dei 49 migranti tenuti in stiva che stavano trasportando verso l’Italia. In patria, però, i detenuti vengono considerati, da amici, familiari e miliziani libici, solo dei presunti “giovani calciatori”.

Questi, per lo meno al momento, sono i fatti e da qui alcune considerazioni sorgono spontanee.

La prima è di “ordine etico”. Premesso che la priorità è salvare i pescatori, è giusto cedere a uno scambio di prigionieri (condannati come scafisti) per riavere in cambio i nostri connazionali arbitrariamente sequestrati nel Paese solo perché stavano pescando in acque considerate territoriali dalla Libia, ma non dalla comunità internazionale? Verrebbe da chiedersi come mai in questi mesi non è stato travato un altro canale di mediazione. Forse dopo giorni e giorni di trattative ci si aspettava di evitare di cedere alla prima richiesta fatta da Haftar, le cui forze hanno posto sotto sequestro i pescatori. È plausibile ipotizzare che l’Italia abbia anche percorso altre strade chiedendo una mediazione agli alleati di Haftar (Russia ed Emirati), ma probabilmente i due attori non hanno ritenuto utile esporsi troppo per la causa italiana con un alleato considerato “di secondo piano”. In fin dei conti cosa avrebbero avuto in cambio? Tuttavia, se lo scambio di prigionieri è davvero l’ultima ratio per riavere a casa i nostri concittadini, non va dimenticato che cedere al ricatto di Haftar significa essere consci che potrebbero esservene altri da Stati “canaglia”, leader tribali e “feldmarescialli” d’Africa, trasformando, così, ogni italiano, che per lavoro o altre ragioni entri in alcuni Stati “instabili”, in preda preziosa.

La seconda considerazione riguarda, invece, gli equilibri interni alla Libia. Sappiamo bene che il percorso del Forum per il dialogo politico in Libia che si è svolto a Tunisi si è arenato sulla scelta del candidato del nuovo Consiglio presidenziale. Una carica importante a cui molti aspirano. In modo particolare il ministro dell’interno Fathi Bashaga, vicino ai turchi che gli avrebbero concesso il placet per una visita in Francia il 18 novembre. Una visita piuttosto fruttuosa che ha assicurato al ministro dell’interno un memorandum di intesa per la realizzazione di sistemi biometrici e altri sistemi di sicurezza.

Forse non è neppure un caso che, dopo quella visita, la Libyan National Oil Corporation (Noc) ha dichiarato di voler espandere gli investimenti della Total di Libia. L’azienda petrolifera statale libica ha spiegato di aver discusso con Total degli sforzi per “aumentare la capacità e i tassi di produzione del greggio ai massimi livelli”.  Insomma sembra che Bashaga stia tentando il tutto per tutto per assurgere a “uomo di peso” per il futuro del Paese. Forse anche per questo Maitig, anch’esso papabile candidato alla carica di leader del nuovo Consiglio presidenziale, ha deciso di sferrare un “colpo da maestro” e annunciare in pompa magna l’imminente liberazione dei pescatori italiani. D’altra parte Maitig aveva già negoziato con Haftar la riapertura dei pozzi petroliferi, una boccata di ossigeno per i libici e ora, forte della riapertura del dialogo con il generale della Cirenaica, potrebbe mediare anche su questa spinosa questione, assumendo un peso diplomatico non indifferente e utile alle prossime nomine.

Ciò precisato, la vicenda dei pescatori prigionieri a Bengasi rappresenta, dopo quasi tre mesi di detenzione, una criticità per l’Italia e per l’Europa, tagliata fuori dai “protagonisti che contano” (Russia, Turchia, Emirati arabi uniti, solo per fare alcuni nomi), che potrebbe incidere sul futuro processo di pace libico. La loro liberazione, in seguito a uno scambio con i quattro trafficanti-calciatori detenuti in Italia, rappresenterebbe una soluzione utile a riportare finalmente a casa, dalle loro famiglie, i nostri connazionali ma costituirebbe allo stesso tempo uno smacco ulteriore per la già compromessa credibilità dell’Italia in Libia e, più in generale, nel Mediterraneo.

 

Articolo pubblicato su michelamercuri.it

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