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Tunisia

Che cosa c’è dietro l’angolo per l’Occidente

All’orizzonte, con il mutamento nei rapporti di forza tra le diverse aree del mondo, l’Occidente rischia di non essere più il protagonista, o almeno l’unico protagonista, della storia universale. C'è poco da gioire. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Se anche Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, parla della necessità di una nuova “partnership pubblico-privato” siamo di fronte ad un nuovo salto di paradigma. Del resto questa svolta era nell’aria. Ne aveva parlato, con largo anticipo, il governatore della Banca d’Italia, nelle sue Considerazioni finali dello scorso anno, per poi ribadirlo durante i lavori del Festival dell’economia a Trento. Titolo: “Il ritorno dello Stato”. Ma più che di un ritorno, dovrà trattarsi, appunto, di un “nuovo” paradigma. Ed allora conviene esercitarsi sulla linguistica per capire la novità della cosa.

Innanzitutto perché un “ritorno”? Dagli inizi degli anni ’80, periodo al quale si fa risalire la nascita della globalizzazione, la presenza dello Stato nell’economia era vista come un grande intralcio. Gli animal spirits di cui avevano parlato Keynes e Schumpeter, proiettati alla conquista di un mondo caratterizzato dalla profonda scissione tra Paesi sviluppati e periferia, non potevano essere ingabbiati nelle regole del passato. C’erano dei mercati da conquistare, nuovi luoghi di produzione da creare, garantire il trasferimento dei capitali necessari per fondare le nuove imprese. E grazie a queste innovazioni: cambiare il volto di mezzo Pianeta.

In quegli anni Shangai, la ricordo ancora così in un vecchio viaggio, aveva il volto di una città coloniale. Le case basse e di fortuna. I vicoli pieni di gente. Il cibo cotto nelle piccole stradine, con fornelli di fortuna ed offerto ai passanti. Oggi la città è piena di grattaceli che, per numero ed altezza, fanno concorrenza a Manhattan. Le vie sono intasate dal traffico delle auto. Tante quelle di lusso a partire dalle Ferrari. Lo smog si taglia con il coltello ed offusca l’orizzonte. Prodigi o, se si preferisce, misfatti della globalizzazione. I cui eccessi, specie nelle vecchie metropoli occidentali, hanno prodotto disastri. Ed il susseguirsi, in rapida successione, di due crisi – quella del 2007/08 e quella odierna – il cui impatto è stato di gran lunga superiore a quella del lontano 1929.

Ma il ritorno non può portare al caro e vecchio statalismo del bel tempo andato. O peggio all’affermarsi di un nuovo nazionalismo, seppur nella veste un po’ più sofisticata del sovranismo. Non è questione di ideologia. Le moderne tecnologie, quelle già sperimentate ma ancor di più quelle che verranno, hanno profondamente modificato le relazioni spazio-temporali. Il mondo negli ultimi anni è diventato sempre più piccolo. Le telecomunicazioni, soprattutto internet, hanno annullato ogni distanza. I progressi nella logistica e nei trasporti accentuato la competizione tra i diversi continenti. Della finanza internazionale nemmeno parlarne. Tutti i titoli emessi dallo Stato italiano, a copertura del suo ingente debito, non superano il 3 per cento del totale degli strumenti creditizi in circolazione. Le migrazioni stesse stanno a dimostrare il rifiuto più generale di migliaia di individui, che non vogliono rimanere prigionieri del proprio originario destino.

Può un piccolo Stato nazionale opporsi a tutto ciò? Alzare muri e barriere? Stabilire regole ed approvare leggi che siano in contraddizione con un più generale sentire, che altro non è che lo zeitgeist: lo spirito del tempo, il respiro di una modernità che si può, anzi si deve criticare, ma non si può ignorare? Sarebbe come tentare di travasare il mare con un semplice secchiello. Ed allora non resta che cercare nuove forme di aggregazione sovranazionale: ovviamente rinunciando a qualcosa, ma con l’obiettivo di acquisire altri benefici e garanzie. L’irreversibilità dell’Unione europea, nonostante la Brexit: portata avanti nella speranza o nell’illusione di poter cavalcare meglio le onde finanziarie di una globalizzazione, che forse stava mutando.

Nell’affrontare la seconda crisi del Terzo millennio, quella determinata dall’epidemia di Covid, l’Unione europea ha, se non capito, almeno intuito quale doveva essere la giusta direzione. La Next generation Eu è stata la risposta giusta. Come giusta è stata quella americana nel finanziare, con risorse molte maggiori di quelle messe in campo dall’Europa, la propria economia. Per fortuna sia la FED che la BCE (merito in questo caso di Mario Draghi) avevano giocato d’anticipo, con il quantitative easing. Secondo i dati della Commissione europea, la Banca d’Italia, per conto dell’Istituto di Francoforte, aveva aumentato gli acquisti di titoli italiani di ben 144,8 miliardi, nel solo anno terminato a febbraio del 2021. Aumentando la quota posseduta dal 19,9 al 25,8 per cento.

Nello stesso periodo gli investitori esteri tiravano i remi in barca, riducendo dal 36,5 al 32,4 per cento del totale la quota dei titoli italiani posseduti. Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo senza l’Europa: scenari da incubi. Naturalmente non sono solo rose e fiori. Il rapporto all’interno dell’Unione rimane problematico. Non tutti i leader europei sono convinti della bontà delle soluzioni trovate. Soprattutto in Germania il dibattito si infervora: anche in vista delle imminenti elezioni autunnali. In pista sono scesi i falchi: non solo Wolfgang Schaeuble, da sempre critico nei confronti delle posizioni di Mario Draghi; ma lo stesso Armin Laschet, l’accreditato successore di Angela Merkel. La loro richiesta è semplice: il puro ritorno alle vecchie regole del Patto di stabilità.

Pochi gli argomenti portati. Al punto che è dovuta scendere in soccorso la Bundesbank, che non potendo prendersela con la BCE, ha chiamato in causa la FED, secondo il vecchio adagio di dire nuora perché suocera intenda. Nella nota stilata dal suo capo economista, David Folkerts-Landau, è stato espresso il timore che gli Stati Uniti ed il mondo, a causa delle politiche monetarie seguite, siano sedute su una bomba a orologeria. Troppa liquidità e quindi un potenziale inflazionistico destinato prima o poi a manifestarsi, con inevitabile virulenza. Ed allora – questo il timore – come agli inizi degli anni ’80 non potrà che esservi la stretta, come quella decisa da Paul Volcker, l’allora presidente della Fed, dalle conseguenze catastrofiche.

Più che un eccesso di pessimismo, nessun riguardo per le lezioni della storia. Una delle interpretazioni più convincente della crisi del 1929 fu quella dello storico-economista Charles Kindleberger. Che fu ripresa da Guido Carli in una delle sue “Considerazioni finali”, quand’era Governatore della Banca d’Italia, nel 1975. Allora – questa la conclusione – era stata la riluttanza delle autorità statunitensi ad assumere la responsabilità conseguente alla crescente sostituzione del dollaro americano alla sterlina inglese al centro del commercio mondiale. “La logica di Kindleberger – commentava il Governatore – appare inoppugnabile e rientra in uno schema in cui vantaggi e svantaggi della leadership si bilanciano, e giustificano politicamente la figura di un Paese egemone”.

Ma da quest’orecchio alcuni dirigenti tedeschi non vogliono sentire. Ed è un grande peccato. La crisi del ’29 fu un capitolo della guerra dei trent’anni, che insanguinò l’Europa con ben due conflitti mondiali. Oggi questo pericolo non c’è più. In compenso, all’orizzonte, con il grande mutamento intervenuto nei rapporti di forza tra le diverse aree del mondo, l’Occidente rischia di non essere più il protagonista, o almeno l’unico protagonista, della storia universale. Difficile prevedere le conseguenze di questa possibile défaillance. Certo ben poco di buono.

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