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Caso Moro

La verità del caso Moro arriva dalla Siria?

Che ruolo hanno avuto i servizi segreti libici e un gruppo di fuoco palestinese nel caso Moro? L'articolo di Franco Scalzo per Storia in Rete.

 

Nelle settimane in cui Aldo Moro fu tenuto prigioniero delle Brigate Rosse (16 marzo-9 maggio 1978) è facile che nei più oscuri recessi dell’opinione pubblica – non solo quella orientata a sinistra – si fosse sedimentata una sorta di inconfessabile ammirazione nei confronti delle BR. Il “fascino” dei terroristi stava nella loro “geometrica potenza”, in un Paese, come l’Italia, in cui non funzionava niente e che sprofondava nella più deplorevole sciatteria. Inoltre, quel «mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato», una frase inserita da Moro in una delle sue lettere dalla prigionia, attenuò in misura considerevole, la pietà verso un prigioniero che sembrava essersi prosternato ai propri aguzzini. Sul quaderno utilizzato per chiosare, punto su punto, la lettera inviatagli da Moro, accanto a tale frase l’allora ministro dell’Interno e futuro Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga annotò che si trattava «dell’avvertimento che egli può esser costretto a parlare». L’allora inquilino del Viminale e compagno di partito del leader Dc in mano ai terroristi, al quale gli americani avevano imposto la coabitazione, nella stanza dei bottoni, con Steve Pieczenik, un singolare funzionario del Dipartimento di Stato Usa, svicolava così da una situazione imbarazzante con una giravolta da circo equestre. Svicolava per non dover ammettere, ad esempio, che il giornalista Mino Pecorelli, notoriamente ben informato e legato ai servizi segreti, aveva già scritto sulla sua rivista “O.P.” (cioè “Osservatore Politico”) di “territorio tecnicamente siriano”, quale probabile prigione del presidente democristiano e che il riferimento al “dominio pieno ed incontrollato” poteva riferirsi ad un luogo fisico, giuridicamente avulso dall’ambiente circostante, impermeabile all’Autorità italiana. Ma, oltre a quanto scritto da “O.P” (in un numero che si sarebbe “volatizzato” subito dopo la pubblicazione), c’era anche altro.

COSA SCRIVE MORO NELLA LETTERA AL NIPOTE LUCA

C’è, ad esempio, una lettera scritta da Moro per il nipotino Luca, scoperta, tra diversi altri documenti, in quel di Milano, nell’appartamento di via Montenevoso 8, solo molto tempo dopo. Quella lettera, secondo alcune testimonianze, sarebbe stata trattenuta dai carcerieri perché conteneva informazioni in codice per gli inquirenti; vi ricorrono infatti delle affermazioni che sembrano andare nella stessa direzione indicata da Pecorelli, ad esempio la frase «ora il nonno è un po’ lontano, ma non tanto» oppure l’altra, che dice: «…col nonno che ora è un po’ fuori». I concetti di “vicino” e di “lontano” assumono l’atroce fluidità dell’equivoco nell’animo di chi sa di trovarsi in terra straniera ma sente distintamente lo stridio dei gabbiani e il rumore delle carrozzelle, piene di turisti, che mordono il lastricato. Perché tutto – con l’unica eccezione di via Fani, il luogo del rapimento, che sta da tutt’altra parte – si gioca nel triangolo virtuale – appena qualche centinaio di metri quadri – che comprende alcuni luoghi e situazioni chiave:

1) il sottopasso di Largo Argentina dove viene ritrovato il primo comunicato delle cosiddette B.R;

2) via Caetani, dove verrà abbandonato il cadavere di Moro;

3) il noto veggente olandese Gerard Croiset aveva collocato il “carcere del popolo” all’interno del ghetto ebraico;

4) l’indicazione, più volte ripetuta, sotto forma di metafora, da parte del solito Pecorelli, dell’ambasciata siriana che si trova ancora oggi a poca distanza, in piazza dell’Ara Coeli;

5) la foto, ripresa dall’alto, dei due magistrati inquirenti, Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, che ispezionavano il Ghetto, e fatta recapitare a Priore, insieme ad un bigliettino di auguri, con lo scopo evidente di bloccarne l’indagine.

Alla fine, la percezione collettiva dei fatti del “Caso Moro” risulta distorta quasi più dalle letture ideologiche e dalle “tentazioni” letterarie di certe ricostruzioni che dai sistematici depistaggi operati da alcuni organi dello Stato. La Renault 4 rossa con il cadavere di Moro, fu fatta trovare lì, in via Caetani il 9 maggio 1978, perché era la soluzione più comoda, e i brigatisti rossi – praticamente dei “gitanti della domenica” che si erano arrabattati col tiro a segno – non sarebbero stati mai capaci di compiere il capolavoro di via Fani: il rapimento di Moro e la strage della sua scorta condotti con la gelida precisione di un orologio svizzero, quella di un commando specializzato nel condurre vere e proprie azioni di guerra in un contesto urbano.

LE “RIVELAZIONI” DI PECORELLI

Sono passati oltre 44 anni da allora, quasi mezzo secolo, e ancora non so spiegarmi come siano state ignorate certe “rivelazioni” di Pecorelli: l’anatema, ad esempio, rivolto ai brigatisti che esultavano da dentro una gabbia, nel tribunale di Torino, per l’impresa dei loro “compagni” a Roma, giacché – diceva il direttore di “O.P.” – il logo della stella a cinque punte su sfondo rosso era servito solo come copertura per altri attori. Un’ operazione – quella del rapimento di Moro – che era la più sofisticata di tutta la storia dell’Occidente industrializzato e che portava i crismi di Yalta.

La matrice bipartisan del delitto – associata agli interessi strategici di Usa e Urss che sarebbero stati minacciato in pari misura dalla realizzazione del “compromesso storico” (cioè il coinvolgimento del Partito comunista nel governo del Paese) – rende plausibile l’ipotesi che mentre al Viminale Pieczenik vigilava per impedire che qualcuno andasse davvero in soccorso di Moro, il compito di rapire il presidente della Dc ed eliminare la sua scorta fosse stato dato in appalto ad un gruppo di fuoco di specialisti stranieri. Uno scenario, questo, che fa premio sia sul fatto che il coinvolgimento B.R. è stato “certificato” unicamente dal drappo con la stella che compare nelle due istantanee del prigioniero (poca cosa, parente stretta del Nulla), sia, soprattutto della cura certosina con cui è stato “ripulito” – da subito – il palcoscenico di via Fani. Ad esempio col sequestro delle foto scattate nell’immediatezza dell’evento ai due fotoreporter Gherardo Nucci (dell’agenzia Asca) e Ianni (dell’Ansa). Ma anche con la pietosa iattanza riservata a due dei testimoni del rapimento, uno dei quali asseriva di aver sentito gli attentatori mentre, nella concitazione, si scambiavano ordini in una lingua che non era né inglese, né italiano, né tedesco. E l’altro testimone ha dichiarato di aver notato l’“incarnato olivastro” di coloro che avevano partecipato all’agguato.

Ho atteso che passassero degli anni per mettermi a caccia, nelle emeroteche e nelle collezioni private, della copia di “O.P.” che conteneva il riferimento di Pecorelli al «territorio tecnicamente siriano». Escludevo che, visto il personaggio, il giornalista l’avesse buttato lì, senza cognizione di causa. Ma è stato tempo perso: quella copia non l’ho più ritrovata. In compenso, però, sono stato autorizzato a consultare le carte che riguardano il Caso Moro che la Presidenza del Consiglio, durante il governo Renzi, aveva trasferito all’Archivio Centrale dello Stato. Un mare di documenti nel quale mi sono calato con tutta la mia attrezzatura da palombaro intercettandone, tra le varie cose, uno in particolare. Un documento che aveva per titolo “Riferimento siriano” e che non solo “riabilitava” Pecorelli dal sospetto di aver giocato d’azzardo ma mi offriva una serie di elementi utili per ravvisare in elementi della “Saeqa”, la costola dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) che prendeva ordini da Damasco, il gruppo di fuoco che aveva agito in via Fani. Ma c’è di più. Perché seguendo questa direzione d’indagine ho accolto, tra le eventualità degne di considerazione, anche quella che qualcuno aveva tentato, in quella primavera del ’78, di forzare il muro di omertà che aveva circondato Aldo Moro. Lo dimostra la storia dell’uomo che cercò più volte, in incognito e inascoltato, di notificare all’Ansa e al Vaticano, per mezzo di un telex, l’identità dei rapitori e il luogo in cui Moro era tenuto prigioniero. Il combinato disposto di questo e altri file mi ha procurato uno spaccato, che descrivo succintamente.

Il commando, terminato il lavoro in via Fani, si dileguò in direzione dell’Aurelia e si diresse verso un punto prestabilito del litorale (da qui, il particolare della sabbia rinvenuta nel risvolto dei pantaloni di Moro) dove sarebbe dovuto arrivare con un gommone veloce un altro gruppo con l’incarico di spostare il presidente della DC su di una nave che stava incrociando al centro del Tirreno (circostanza che fra l’altro era stata riportata su “Giorni – Vie Nuove”, una rivista legata al Pci, dal giornalista Guido Cappato, che l’aveva appresa da un agente del servizio segreto interno israeliano, lo Shin Bet, incontrato in Svizzera).

IL RUOLO DEI SERVIZI ISRAELIANI

È molto probabile che l’interferenza dei servizi israeliani, nonostante si annunciasse piuttosto innocua, avesse indotto gli organizzatori del sequestro a ripiegare sullo “smaltimento” del prigioniero in un’ambasciata amica. Così, mentre il gruppo di fuoco reduce da via Fani poteva essersi imbarcato regolarmente su di un aereo di linea per ritornare a casa propria, in Libano, i carcerieri di Moro, con un’inversione ad “U”, riprendevano la strada di Roma. Una telefonata anonima, raccolta dal Comando generale dei Carabinieri, alle 21,45 del 17 marzo 1978, avvertiva che nel lasso di tempo compreso tra le ore 3 e le ore 4, seguita da una Fiat color bleu, sarebbe transitata sul Lungotevere degli Inventori – provenendo dalla zona costiera – una Renault 4 color “aragosta”, targata Roma, con dentro Aldo Moro.

Prima che arrivasse al capolinea di via Caetani, per aprirsi come una bomboniera e mostrare al mondo il suo terribile contenuto, una Renault 4 rossa, la cui targa cominciava con “N”, venne in effetti registrata, in data 5 maggio, come macchina sospetta su di un brogliaccio dei Carabinieri ma non si può dire se si sia trattato di una coincidenza o meno, giacché al posto del numero di targa appare una teoria di puntini e non c’è modo neanche di sapere se questo modo di fare rientrasse tra le consuetudini dell’ufficio o se l’omissione sia stata fatta successivamente alla terribile “sorpresa” di via Caetani. E’ verosimile, comunque, che a dispetto di tutte le chiacchiere che, prendendo spunto da altre chiacchiere, si sono intrecciate intorno a via Gradoli e a via Montalcini (dove sarebbero state le due presunte prigioni di Moro durante il sequestro), in una dinamica circolare come quella dell’Uroboro (il simbolo che raffigura il serpente che si morde la coda), la prigionia di Moro abbia seguito ben altri percorsi. I primi giorni vennero trascorsi dal leader Dc in un ricovero segreto sul litorale romano (stando alla fonte confidenziale chiamata convenzionalmente “Olmo”). Forse furono un paio di settimane, come si potrebbe evincere dall’analisi crittografica eseguita dai carabinieri sulle lettere scritte dal prigioniero al segretario del suo partito, Benigno Zaccagnini, con possibili vari riferimenti “cifrati” ad una vicinanza col mare. Ma il resto della prigionia Moro la passò nel centro di Roma dovendosi dare per scontato, comunque, che la Renault rossa col suo cadavere ha percorso solo una brevissima distanza prima di essere parcheggiata in via Caetani, la mattina del 9 maggio 1978. E’ questo un dato confermato dai periti, Valerio Giacomini e Gianni Lombardi, che avevano effettuato la perizia botanica e petrografica sui pneumatici dell’auto. Una perizia che ha però incontrato il granitico ostracismo di altri esperti – un elenco chilometrico – ai quali le conclusioni di Giacomini e Lombardi rovinavano la “narrazione” basata su via Montalcini, distante parecchi chilometri dal punto in cui era stato fatto trovare il cadavere di Moro. Una buca qui (via Gradoli), e una buca lì (via Montalcini), come fanno le prede per sfuggire all’attacco dei predatori. E’ quello che si insegna alle “barbefinte” il primo giorno di scuola.

UN ORDINE SUPERIORE HA DEVIATO IL CASO MORO?

La sensazione, passando al setaccio l’enorme mole di documenti disponibili presso l’Archivio Centrale dello Stato, è che i nostri Servizi, all’epoca, fossero stati obbligati da un ordine superiore (quanto “superiore” lo si può solo intuire) a guardare senza intralciare. Lo fa sospettare, ad esempio, quel colonnello del SISMI, il servizio segreto militare dell’epoca, – tale Guglielmi – che, guarda caso, passava a piedi in via Fani il 16 marzo 1978 perché doveva recarsi a pranzo da un amico (troppa premura, alle ore 9?), e ciò giustifica anche il tenore di un biglietto (riprodotto sulla copertina del mio libro “Ecce Moro”, Settimo Sigillo editore, pubblicato nel 2014 ma condannato ad uscire quasi subito dalla vista) nel quale un ufficiale dei Servizi si rivolge sconsolato, al generale Giuseppe Santovito, a capo del SISMI dal 1978 al 1981, per dirgli: «Eccellenza, per notizia. Non sembra che, finora, sia stata trovata la pista giusta relativamente al caso Moro…».

Lo scenario del complotto internazionale, che non doveva, per tutta la sua complessità, rimanere circoscritto al ruolo egemone di USA e URSS o a quello subalterno della Saiqa, emerge in tutta la sua straripante evidenza in tutti i documenti in cui ricorrono informazioni e voci riguardanti la Libia di Gheddafi. Considerevole, ad esempio, la nota del SISMI in cui sta scritto: «Il 20 marzo il SISDE (il servizio segreto civile dell’epoca, NDR) inviava copia del messaggio secondo cui un apparecchio DESSAULT MYSTERE FALCON 20, contrassegnato in Libia con la sigla 5A – DAG, indicato da diverse fonti come appoggio di commandos terroristici e che avrebbe dovuto atterrare all’aeroporto di Ginevra-Cointrin il 15 marzo 1978, provenendo dalla stessa Libia, aveva bruscamente modificato il proprio piano di volo e si era invece posato a Roma-Fiumicino, da dove era poi ripartito alle ore 10,05 del successivo 16 marzo, con destinazione Parigi-Orly». Nel prosieguo del dispaccio si legge: «impiego uniformi tipo aviazione civile da parte noto commando potrebbe trovare collegamento con presenza in Roma Fiumicino di detto aereo alt». Il velivolo, utilizzato normalmente dalla dirigenza libica per garantire appoggio ai propri agenti impegnati in azioni di terrorismo “di livello internazionale”, si fermò di notte in una piazzola decentrata dello scalo di Fiumicino e ne discesero tre persone (di cui una verrà in ritardo identificata per Abdessalam Jalloud, il braccio destro del rais libico, posto al vertice dell’intelligence libica) che fecero perdere inopinatamente le proprie tracce per ricomparire e reimbarcarsi la mattina successiva, dopo la strage di via Fani.

Ovviamente dell’episodio, nei verbali di quattro processi giudiziari e di due commissioni parlamentari, non c’è neppure l’ombra, nel pieno rispetto di una raccomandazione fatta “urbi et orbi”, nell’ 1988, dall’ammiraglio Fulvio Martini, capo del SISMI, che rilevava come non fossero venuti meno i motivi per cui alcuni aspetti di quella tragedia «se divulgati, avrebbero potuto turbare i rapporti internazionali con i Paesi interessati». Un esempio di cos’è uno Stato che non conta nulla, l’equivalente di una colonia.

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