Il comunicato stampa del Comando Generale dei Carabinieri, che è seguito, il 22 maggio, all’avviso di garanzia, con invito a comparire quale indagato, al Generale Mario Mori, ha creato clamore, mediatico e social.
VICINANZA DELL’ARMA AD UN INDAGATO
È infatti la prima volta che una primaria forza di polizia giudiziaria nazionale, oggi anche Forza Armata, esprime pubblicamente la propria “vicinanza” nei confronti di un indagato. Ancorché alto ufficiale che “con il suo servizio, ha reso lustro all’Istituzione in Italia e all’estero”.
Una vicinanza manifestata sì “nel pieno rispetto del lavoro dell’Autorità Giudiziaria”. Ma in un comunicato ufficiale dove ogni parola è giustamente pesata.
PAROLE CHE PESANO COME PIETRE
Sono parole che pesano come pietre quelle utilizzate nel comunicato dell’Arma. Soprattutto nella conclusione. Dove viene dichiarato di confidare che “anche in questa circostanza” il Generale Mori “riuscirà a dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati”.
Ecco, “anche in questa circostanza” sono le parole che pesano più delle altre.
Perché, come – a mio avviso giustamente – ha dichiarato all’Ansa Giandomenico Caiazza, che di procedure giudiziarie se ne intende, quale vecchio Presidente dell’Unione Camere Penali italiane, “un teorema giudiziario eletto a paradigma intoccabile, sul quale si sono costruite immeritate carriere professionali e politiche, oltre che fortune editoriali, non può accettare smentite e sconfitte. Perciò lo si replica all’infinito, calpestando senza remore la vita e la dignità delle persone. Tanto non pagherà nessuno, perché il potere giudiziario non risponde a nessuno, nemmeno a se stesso. Si tratta, bisogna capirlo una volta per tutte, di una vera e propria emergenza democratica, che occorre affrontare e risolvere con coraggio e determinazione”.
POLARIZZAZIONE DEL DIBATTITO
Non è tuttavia unanime il sostegno mediatico, politico e social, al Generale Mori.
“Chi difende il generale vuole attaccare i pm e la giustizia”, titola un’intervista ad Alfredo Morvillo, fratello della moglie di Giovanni Falcone, uccisa nella strage di Capaci, a firma di Giuseppe Pipitone sul Fatto Quotidiano. Titolo di segno opposto alle dichiarazioni di solidarietà a Mori da parte di Rita Dalla Chiesa, figlia di un altro autentico eroe e martire della lotta alla Mafia.
Ed il sostegno non è stato quindi unanime, neppure, al composto, ma senza precedenti, comunicato dell’Arma dei Carabinieri. Che ha provocato, sui media e sui social, la solita forma della narrativa nazionale cui gli italiani sono assuefatti da troppo tempo. Lasciando pieni di interrogativi e di sorpresa gli osservatori stranieri. Tra i quali chi, come chi scrive, vive all’estero ed è stato per anni, per mestiere, a contatto con le forze di polizia ed i giornalisti di tutti i paesi europei. Paesi dove è infrequente trovare la polarizzazione ideologica, da tifo da stadio, nostrana. Da una parte i Guelfi, dall’altra i Ghibellini.
Una narrativa dalla quale nessuno, purtroppo, esce vincitore.
E nessuno può credere o pensare di avere fatto scacco a nessuno.
UNA SCONFITTA PER LA CREDIBILITÀ DELLO STATO, UNA VITTORIA PER I VERI MAFIOSI
Da questa ennesima vicenda mediatico-giudiziaria esce certamente perdente, una volta di più, la credibilità dello Stato e delle sue istituzioni. Dei quali fanno parte la Giustizia, e l’Arma dei Carabinieri. E quindi siamo perdenti tutti.
O meglio, continueranno ad essere vincitori solo i veri delinquenti, i veri mafiosi, che restano tantissimi. E che si sentiranno ancor più in diritto di confondersi con le vere vittime di migliaia di casi Tortora del nostro paese. Che sono troppi, anche per le statistiche che permettono sempre un tasso fisiologico di errori umani, e quindi anche giudiziari.
MIGLIAIA DI CASI TORTORA ANCHE TRA LE FORZA DI POLIZIA
Negli ultimi decenni, a differenza di quanto accade negli altri paesi europei, sono stati migliaia i casi di ingiustizia che hanno riguardato anche appartenenti alle forze di polizia. Che hanno riguardato anche gradi molto elevati, con evidente riflesso sulla credibilità internazionale del nostro Paese. Dove però non tutti hanno la celebrità e l’attenzione mediatica ed istituzionale, goduta e subita, nel bene e nel male, dal generale Mario Mori.
Nella Guardia di Finanza, ad esempio, io ne ho conosciuti diversi. A due sue vittime di lunghi calvari giudiziari e professionali, prima di essere assolti da accuse infamanti quanto rivelatesi infondate, il Generale Pino Mango ed il Colonnello Fabio Massimo Mendella, lo scorso anno, per solidarietà umana, ho voluto dedicare simbolicamente il premio «amico del Consumatore 2023», che mi è stato attribuito dal Codacons.
IN ATTESA DI UN “GIUDICE A BERLINO” CHE POSSA RIAFFERMARE IL “NE BIS IN IDEM”
Mori, a 85 anni, e dopo anni di processi subiti, di fatto, per gli stessi fatti che una volta di più gli vengono attribuiti, secondo tanti ha il diritto di considerarsi una vittima.
Sicuramente per chi, come me, da semplice manovale del diritto, sino al giorno dell’ennesimo avviso di garanzia ricevuto dopo piena assoluzione, credeva nella sacralità del principio “ne bis in idem”.
Sacralità violata – nonostante i tanti cavilli che porteranno altri a dimostrare il contrario – che, non so se opportunamente (come io penso), o meno (secondo avviso di altri), il Comando Generale dei Carabinieri ha voluto denunciare pubblicamente.
Con una sobria ma ferma nota di solidarietà umana che utilizza implicitamente una formula retorica da molti decenni: “abbiamo fiducia nella magistratura e nella giustizia”.
Ma quale magistratura e quale giustizia? Quella di Firenze, Napoli, Palermo, Milano, Udine, Canicattì o dell’agognato «giudice a Berlino»?