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Giorgetti

Cartabia: riforma o schiforma?

"L’amaro ripiegamento di Draghi e Cartabia per ritardare la dissoluzione grillina". I Graffi di Damato

Magari fosse vero il titolo non strillato del Foglio in cui si riconosce a Draghi e al suo governo, compresi i quattro ministri grillini che alla fine sono tornati a votare a favore, di avere “archiviato Bonafede”, cioè la sua prescrizione praticamente abolita con l’esaurimento del giudizio di primo grado, e di avere “sventato il blitz di Conte”. Che è attaccato come un’ostrica a ciò che aveva permesso di fare al suo ministro della Giustizia nel 2019. Magari, ripeto, pur senza gridare con la gioia del Riformista per i “Cinque stelle allo sbando” che “alla fine cedono”. Ma non per questo smettono di sbandare.

Se dovessi scegliere un titolo in cui riconoscermi di più dopo la nuova versione della prescrizione, o “improcedibilità”, uscita dalle trattative su quelli che dovevano essere “piccoli aggiustamenti tecnici”, tradotti in tante, troppe licenze concesse ai processi senza fine per le assoluzioni in primo grado contestate dall’accusa, mi fermerei a quello del manifesto. Nel cui orgoglio di sentirsi “quotidiano comunista” non mi riconosco per niente, naturalmente, ma di cui apprezzo la sagacia con la quale riesce spesso, molto spesso, a rappresentare in poche parole certe situazioni. Ebbene, quel “mistero della giustizia” stampato in prima pagina sulla foto del Consiglio dei Ministri lo trovo appropriato dopo i rospi che la titolare del Ministero di via Arenula, pur con la sua autorevolezza di presidente emerita della Corte Costituzionale, ha dovuto ingoiare. E ciò sino a lasciarsi guidare bendata, come l’ha immaginata Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, nel “passo avanti” voluto, accettato e quant’altro dal presidente del Consiglio Mario Draghi.

Quest’ultimo, sicuramente più attrezzato, con la sua storia professionale alle spalle, in materia finanziaria che giuridica, senza volere con questo avallare l’accusa di Marco Travaglio di essere solo un “figlio di papà”, peraltro orfano dall’età di 15 anni, ha ritenuto politicamente più utile tutelare la parte residua del testo originario delle modifiche del governo alla riforma del processo penale piuttosto che rischiare l’esplosione non più soltanto del movimento grillino quanto dell’intera maggioranza di emergenza: E ciò a pochi giorni dall’inizio del cosiddette semestre bianco, in cui Mattarella in scadenza di mandato perde la possibilità di fronteggiare una crisi di governo rimandando gli elettori alle urne. Non escludo neppure che Draghi abbia fatto la sua scomoda scelta confortato dal parere del capo dello Stato.

Se tutto questo fosse vero, anche con l’effetto di sentir gridare Alessandro Di Battista dalla Bolivia, o dove diavolo si trova, che la riforma targata Draghi e Cartabia era un quintale di cacca – lui, in verità, ha usato una parola più consona alla propria cultura – e rimane tale per un’ottantina di chili; o con l’effetto altrettanto sgradevole di vedere chiamare da Travaglio “Scartabia”, come “schiforma” il suo originario progetto, la ministra della Giustizia ordinandone il ritorno a casa, altro che l’elezione al Quirinale; se tutto questo -ripeto, fosse vero, potremmo consolarci solo all’idea che fortunatamente sono e restano sul tappeto i sei referendum sulla giustizia promossi da leghisti e radicali. Per i quali sono state già raccolte più di 250 mila delle 500 mila necessarie. Con essi potremmo davvero chiudere l’anno prossimo la partita ingaggiata da una minoranza agguerrita di toghe contro la democrazia e la Costituzione. Che quando reclama la “ragionevole durata” perla del processo, in assoluto e al singolare, non solo di quelli che di volta in volta la politica in senso lato considera degni di una simile tutela.

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