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Caro Conte, eviti la prosopopea. Firmato: Damato

Conte dovrebbe cominciare a mettere via un po’ del suo ottimismo, o della sua prosopopea, con aggettivi e avverbi annessi e connessi, e rendersi conto delle sue debolezze. I Graffi di Damato

“Più complicato del previsto”, ha detto Giuseppe Conte del Consiglio Europeo che i maggiori estimatori del presidente del Consiglio in Italia – naturalmente al Fatto Quotidiano – hanno tradotto con un fotomontaggio sulla prima pagina in una partita di pugilato fra lo stesso Conte e l’omologo olandese che ha l’inconveniente, fra l’altro, di chiamarsi Rutte. E’ un nome che Marco Travaglio, con la mania che ha di polemizzare storpiando i documenti dei malcapitati che gli capitano a tiro, ha tradotto in Rotto, inteso come singolare di rotti: quelli che si sentono nelle taverne forse molto note al direttore del giornale più contiano d’Italia, in versione sia cartacea sia digitale.

Oltre ai “rotti”, il premier olandese si porta sul groppone l’inconveniente di governare un paese di “soli” 17 milioni di abitanti e di pretendere, grazie alle “demenziali regole europee”, di “ricattare e paralizzare col voto” negli organismi comunitari “tutta l’Unione Europea che ne ingloba 446 milioni”.

Neppure al “truce” Matteo Salvini sarebbe riuscito di esprimere con più efficacia e sintesi sentimenti così poco europeisti e unitari, usando i quali altri potrebbero dire lo stesso, o quasi, di noi italiani. Che siamo, per carità, più di 17 milioni -molti di più- ma sempre una parte, diciamo così, modesta della popolazione dell’Unione, per quanto il nostro presidente del Consiglio vesta generalmente elegante, con pochette chiara e mascherina scura, in questi tempi di coronavirus, forse utili, secondo i suoi estimatori, a mettere in soggezione gli interlocutori di turno.

Con sostenitori di tal fatta, femminile di Fatto, con quel “garante” come il comico Beppe Grillo che si trova pure sopra la testa, essendo stato designato a Palazzo Chigi da quello strano, anomalo movimento delle 5 Stelle in caduta libera elettorale dalle vette di due anni fa, senza passare personalmente neppure per un referendum fra intimi, Conte dovrebbe cominciare a mettere via un po’ del suo ottimismo, o della sua prosopopea, con aggettivi e avverbi annessi e connessi, e rendersi conto delle sue debolezze, a dir poco.

Quei guantoni che gli ha infilato l’adoratore Travaglio, vedendone e sentendone le imprese di Bruxelles e dintorni, stanno a Conte come alla rana che si gonfia fino a scoppiare nella celebre favola di Fedro: una rana che non potrà neppure aspettarsi il caffè che il vignettista Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX gli ha generosamente destinato alla fine del “frugale” Consiglio Europeo al quale il presidente italiano si è recato pensando di avere “affinato” e persino “affilato” – ha detto alle Camere – chissà quali e quante armi per stendere al tappeto Rutte, rotti e simili.

In genere, commentatori anche autorevoli indicano nell’ingente e ancora crescente debito pubblico la palla al piede dell’Italia nei rapporti con gli altri paesi dell’Unione Europea e, ancor più in generale, nei mercati finanziari. Dove a proteggere i nostri titoli di Stato sono solo gli interventi della Banca Centrale Europea grazie al coraggio avuto a Francoforte dall’allora presidente Mario Draghi ed ereditato dalla francese Christine Lagarde dopo qualche esitazione. Ma forse, senza volere scendere al “Conte nel sacco” gridato sulla Verità, o “detestato” in Europa, come su Libero, è venuto il momento di dire con onestà e semplicità che oltre, e ormai ancor più delle dimensioni del debito pubblico, nuocciono all’immagine e all’interesse dell’Italia le maggioranze di governo molto strane e cervellotiche, sempre meno credibili proprio per le loro anomalie, che si si succedono da noi per capricci, peraltro, più di palazzi che di elettori.

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