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Calenda, il liberismo e le scemenze. Il pensiero di Ocone

Carlo Calenda, simpatico e alquanto disordinato protagonista del dibattito pubblico italiano, ha preso le distanze l’altro giorno da anni ed anni di adesione a una visione liberista. "Ocone's corner”, la rubrica settimanale di Corrado Ocone, filosofo e saggista.

Carlo Calenda, simpatico e alquanto disordinato protagonista del dibattito pubblico italiano, già collaboratore di Montezemolo, vicino a Monti e ministro nel governo Renzi, ha preso le distanze l’altro giorno da anni ed anni di adesione a una visione liberista, seppur progressista, dell’economia e della società. Lo ha fatto alla presenza di Bianca Berlinguer e Massimo D’Alema che con lui presentavano l’ultimo libro del vicedirettore del Corriere della sera, Antonio Polito, significativamente intitolato: “Il Muro che cade due volte. Il comunismo è morto, il liberalismo è malato e neanche io mi sento molto bene” (Solferino).

Con coraggio e onestà intellettuale, non disgiunti da una certa esuberanza di toni e stile, Calenda ha detto di aver seguito negli anni passati un’idea che era una “scemenza” perché i posti di lavoro vanno difesi, lo Stato non può essere smantellato, il profitto non può essere per l’impresa una variabile indipendente, e via discorrendo.

Calenda, forse senza accorgersene, non fa che seguire lo spirito dei tempi, i quali, vissuti senza un momento di sano distacco riflessivo, portano a vedere le cose in modo sempre un po’ unilaterale. Che il liberismo avesse assunto in Italia qualche anno fa un aspetto quasi ideologico, non c’è dubbio. Ed è giusto criticarlo in quel suo aspetto. Ma, oggi che tutto rema a favore di uno statalismo assistenzialista e redistributivo, non si può non considerare il fatto che, dietro la coltre delle ideologie, oggi come ieri, c’è sempre qualche parziale “verità” da accettare negli avversari oltre le mode intellettuali.

Il liberismo a cui tanti aderirono in Italia, almeno a parole, nei decenni scorsi, aveva, in alcuni suoi esponenti e guru, tutti i vizi che hanno le ideologie: il meccanicismo, lo schematismo, il determinismo, l’irriflessività intollerante, ecc. ecc. I suoi promoter, quelli che in altri e non dissimili tempi Benedetto Croce avrebbe chiamato i “commessi viaggiatori del liberismo”, avevano sempre pronta in tasca la ricetta che, immemori della complessità del reale, avrebbe secondo loro come d’incanto risolto ogni problema sociale. Sempre la stessa: meno Stato, più mercato.

Quel liberismo era metafisico e teologico, e quindi non liberale proprio perché toglieva all’uomo ogni responsabilità e libertà morale. Virtù che si esercitano sempre nella concretezza delle situazioni e che, non appellandosi a ricette predeterminate, non sono mai garantite nel loro risultato. Virtù politiche, e quindi imperfette. Ma tolta questa patina ideologica, il liberismo segnalava allora, e segnerà sempre, l’esigenza di non avere altri vincoli che quelli che ci detta la morale e che ci impone la legge nel costruire liberamente la nostra personalità, in economia e altrove.

Il liberismo, da questo punto di vista, è rispetto al liberalismo, non la precondizione (chi l’ha detto che le libertà democratiche seguono di conseguenza all’affermazione di quelle di mercato?, Cina doxet) ma la parte (economica) rispetto al tutto (la concezione generale della vita e del mondo). Il liberismo, inteso poi nel senso degli “spiriti vitali” connessi al capitalismo, è forse anche qualcosa di più: quell’energia corporea che accompagna la realizzazione anche dei più grandi ideali. Nulla di grande e razionale potrà mai essere realizzato senza un impulso passionale che è dedizione di vita e irrispettosa baldanza comportamentale.

Ma qui andiamo troppo nel filosofico, e conviene per questa volta lasciar stare (anche se, chi vuole, può approfondire il tema in un mio volume di tre anni fa dall’editore Rubbettino: “Il liberalismo nel Novecento”).

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