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Perché da liberista contesto le tesi di Mazzucato su Stato e innovazione

Pubblichiamo un estratto del libro di Alberto Mingardi "La verità, vi prego, sul neoliberismo" (Marsilio)

Una delle affermazioni che hanno fatto la fortuna del libro di Mazzucato è che persino l’iPhone, questo presunto trionfo dell’industria privata, non esisterebbe senza intervento pubblico, sia perché, come già detto, Internet, senza il quale gli smartphone non servirebbero a nulla, sarebbe l’esito delle scelte tecnologiche della DARPA, sia perché alcune delle componenti essenziali di questo formidabile oggetto sono anch’esse a vario titolo e in vario grado il risultato di finanziamenti governativi.

In un libro maliziosamente intitolato The One Device: The Secret History of the iPhone, Brian Merchant cita l’economista angloitaliana e prova a ridimensionare il mito di Steve Jobs. Per il giornalista «l’iPhone [sarebbe] un successo profondamente, quasi incomprensibilmente collettivo» e non invece l’invenzione di un progettista di genio, che l’avrebbe pensato dal primo all’ultimo dettaglio. Questo però non è sorprendente. Nemmeno un personaggio dei fumetti come Tony Stark, il miliardario californiano che si nasconde dietro la maschera di Iron Man, è in grado di perfezionare tutte le formidabili innovazioni della sua armatura rosso e oro.

Nella colonna dei debiti contratti con lo Stato, Mazzucato inserisce ad esempio il touch screen, il quale, nella versione utilizzata nei nostri smartphone e tablet Apple deriva dalle ricerche di Wayne Westerman, che sul tema scrisse la sua tesi di dottorato. È spesso l’esperienza personale che porta a sviluppare un interesse per un certo problema: era il caso anche di Westerman. Egli soffriva infatti di una tendinite cronica al polso. Il suo intento era «elaborare una serie di gesti che potesse sostituire mouse e tastiera», difficili da usare per chi ha problemi alle mani. Westerman aveva una borsa di dottorato finanziata parzialmente dalla National Science Foundation e la sua alma mater, la University of Delaware, fu uno dei primi investitori nella sua start up, FingerWorks, che a un certo punto Apple ha finito per comprarsi. Sarebbe questa la «direzionalità» della politica industriale? Non c’è dubbio che gli amministratori del patrimonio dell’ateneo fecero una scelta brillante, ma sembra più merito loro, che di una «politica pubblica» in senso proprio. Del resto, se il multitouch di Westerman è essenziale per il funzionamento di questi apparecchi da cui sempre più dipendiamo, una componente altrettanto essenziale della sua diffusione su larga scala è il Gorilla Glass con cui è fatto il vetro dell’iPhone (e dei suoi concorrenti): esito delle attività di ricerca di un’impresa privata e orientata al profitto, la Corning, che non sapeva bene che farsene prima che Jobs ne avesse bisogno per il suo telefonino.

Per riconoscere allo Stato americano una qualche paternità sull’iPhone, un candidato più plausibile è il gps, Global Positioning System. Di per sé, il gps è solo l’ultimo atto di una lunga storia, che unisce la bussola, la cartografia nautica e il cronometro marino inventato da John Harrison, che per la prima volta consentì di determinare la longitudine terrestre.

Nel 1959, la darpa e il laboratorio di fisica applicata dell’Università Johns Hopkins inaugurarono un progetto volto a costruire transit, il primo sistema satellitare volto a riconoscere la posizione di oggetti e persone sulla superficie terrestre. Negli anni successivi, marina e aviazione americana avrebbero contribuito, ciascuno per parte sua, a migliorarlo e affinarlo, sino ad arrivare al varo del navstar Global Positioning System, mandato in orbita da Cape Canaveral nel 1989. Un sistema di posizionamento funziona attraverso tre diversi componenti: un insieme di satelliti che trasmettono il segnale radio a terra, le stazioni di controllo, e infine gli apparecchi sui quali il segnalale viene utilizzato dagli utenti per avere ragionevoli indizi circa la propria posizione (e quella del punto che desiderano raggiungere).

Pochi avrebbero da ridire sull’utilità del gps. Grazie ad esso il nostro telefono ha sostituito in pochi anni «Tuttocittà», la vecchia guida che ci consentiva di orientarci cercando, in una sorta di battaglia navale, la via dove dovevamo recarci per incontrare un amico o provare un nuovo ristorante. Le mappe cui accediamo dal telefonino sono inoltre aggiornate in modo molto più puntuale, e forniscono dettagli in più utilissimi: l’ubicazione esatta del numero civico, una fotografia del palazzo visto dall’esterno.

Ringraziamo l’esercito americano? Per carità, motivi per dirgli grazie, perlomeno in questo angolo di mondo, non mancano. Ma commettiamo un clamoroso errore logico, se pensiamo che il manufatto (il telefono cellulare) o il servizio (le «Maps») che conosciamo oggi sia l’esito consapevole di un progetto che mirava a finire lì. Il progetto venne sviluppato non pensando a tutte le possibilità che oggi esso ci mette a disposizione, ma alle esigenze che allora si pensava esso potesse soddisfare. Se i primi usi civili risalgono già ai primi anni ottanta, «non vi sono particolari motivi per credere che, sul finire degli anni Settanta e negli anni Ottanta il gps fosse considerato nient’altro che un sistema di radionavigazione particolarmente avanzato, né che vi sia stata una riflessione sulle sue conseguenze geografiche o epistemiche».

Anche per innovazioni così sofisticate sotto il profilo tecnologico, non dobbiamo immaginare che chi le ha introdotte avesse chiaro, sin da principio, il percorso che avrebbero preso.

Nell’epoca pionieristica del gps, nessuno poteva – ovviamente – neppure immaginare la diffusione capillare che avrebbe avuto una cosa, il telefono cellulare, che allora non esisteva.

Quali siano gli usi possibili per una certa tecnologia dipende anche dal complesso delle altre tecnologie disponibili.

Su un piano più generale, come già abbiamo detto, la questione con la quale Mazzucato ci costringe a confrontarci è se e in quale misura la spesa militare abbia effetti positivi sulla capacità di una società di innovare. L’argomento dell’economista angloitaliana ha il pregio della semplicità: il crescente investimento da parte del governo in ricerca, quand’anche «mediato» da quelle particolari agenzie che sono i corpi militari, ha realizzato tecnologie che il settore privato si è poi limitato a «rimpacchettare» in prodotti di largo consumo. La strategia di Mazzucato è brillante perché prende proprio quelli che a molti appaiono come i successi più luminosi del neoliberismo, nel paese più neoliberista del mondo, e li presenta invece come, al contrario, l’esito più compiuto della capacità dello Stato di intervenire dando una direzione all’economia, creando e modellando i mercati. Che questi interventi abbiano o meno avuto successo, essi sono avvenuti nella seconda metà del Novecento, il periodo della grande esplosione della spesa pubblica.

Se pensiamo alle tecnologie a nostra disposizione, quell’epoca è stata prodigiosa. Siamo passati dalla televisione in bianco e nero a Netflix, dal telefono «duplex», condiviso da due famiglie, all’iPhone, dalla ghiacciaia ai frigoriferi che ci avvisano per sms quando il latte sta per scadere. Anche per questo, l’argomento di Mazzucato appare così istintivamente verosimile. Si fa in fretta a passare dalla constatazione di una correlazione a un’ipotesi di causalità. Se ragioniamo però delle determinanti della crescita economica, se ci chiediamo cioè se quelle politiche hanno avuto un effetto così importante e duraturo sullo sviluppo, dobbiamo cercare qualche riferimento un po’ più solido.

Con «produttività totale dei fattori» gli economisti intendono il rapporto fra il valore aggiunto, gli input di lavoro e lo stock di capitale. La sua variazione è considerata una buona misura di come la crescita del prodotto sia dovuta al progresso delle tecniche produttive. Se guardiamo agli Stati Uniti, studi recenti hanno dimostrato che «il tasso di crescita della tfp (total factors productivity) nell’ultima parte del diciannovesimo secolo è risultato significativamente più elevato di quello registrato nel corrispondente periodo del ventesimo». Se vi sono stati, nel Novecento, anni nei quali la produttività totale dei fattori è cresciuta a ritmo più sostenuto che nel secolo precedente (incluso il periodo della Grande depressione), l’età dell’oro dell’«esercito imprenditore» non è fra questi.

Per concludere, volgendoci all’indietro, è difficile non notare quanto le innovazioni del diciannovesimo secolo abbiano preparato quelle del ventesimo. Per lo storico Vaclav Smil, «gli strumenti essenziali per realizzare quasi tutti i progressi del ventesimo secolo erano stati messi a punto prima del suo inizio, per lo più durante gli ultimi trent’anni del diciannovesimo secolo e negli anni precedenti la prima guerra mondiale», periodo in cui si sarebbe assistito alla «più straordinaria discontinuità nella storia». Peccato che lo Stato (l’esercito) imprenditore a quell’epoca, semplicemente, non c’era ancora.

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SCHEDA DEL LIBRO A CURA DELLA CASA EDITRICE

In un mondo in cui ogni giorno si alzano nuovi muri e lo scontro politico si fa sempre più acceso, un nemico comune unisce destra e sinistra, populisti e democratici, reazionari e progressisti. Che siano le aziende a delocalizzare, l’«immigrazione selvaggia», la precarietà del lavoro o il diffondersi del virus ebola, il libero mercato, il capitalismo o, nella sua definizione più abusata, il «neoliberismo» è il capro espiatorio perfetto per tempi confusi, l’elefante nella stanza che tutti, quando ce n’è bisogno, additano. A livello sia mediatico sia politico, il pregiudizio verso questo presunto ordine mondiale dipinge una realtà governata in segreto da una Spectre di economisti responsabile della distruzione di ogni garanzia sociale e di aver arricchito una ristretta cerchia di speculatori senza scrupoli, a scapito del novantanove percento del mondo. La soluzione per ovviare a queste tragedie sarebbe sempre la stessa: più leggi, più controlli, e quindi più Stato. Per sfatare la presunzione di chi pretende di saperne di più di milioni di persone che ogni giorno comprano e vendono beni e servizi, Alberto Mingardi ridimensiona il mito del mercato pervasivo e tirannico, e ripercorrendone la vera storia mostra come in realtà, nell’ultimo decennio, di politiche neoliberiste ce ne siano state meno di quanto si crede. Il che è paradossalmente un problema: è a quel poco di neoliberismo che dobbiamo crescita e prosperità.

Alberto Mingardi (1981) è stato tra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni. Dottore di ricerca in Storia del pensiero politico, è ricercatore all’Università iulm di Milano, presidential fellow in Political Theory alla Chapman University di Orange County, California e adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. È editorialista de La Stampa e collabora con il supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore. Per Marsilio ha pubblicato L’intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (2013) e Thomas Hodgskin, discepolo anarchico di Adam Smith (2016).

 

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