Donald Trump ha le sue responsabilità e pagherà a caro prezzo quanto abbiamo visto ieri. Da oggi, sarà più radioattivo che mai. Da oggi, sarà più difficile, a prescindere dal merito, che le sue ragioni sulle frodi elettorali vengano ascoltate e valutate.
Il primo effetto è che la certificazione della vittoria di Biden al Congresso procederà più speditamente, le “obiezioni” ai voti dei grandi elettori negli stati contestati ritirate, ogni discussione sulle irregolarità seppellita.
Sarà più difficile per chiunque difendere, o solo valutare serenamente la sua eredità politica, che pure presentava non pochi aspetti positivi; e sarà più difficile sostenerlo in futuro, nel caso in cui volesse correre di nuovo per la presidenza.
Sarà per lui più difficile trovare alleati e sostenitori, tra i politici ma anche nel mondo dei media, dell’economia e della finanza. Molti che avrebbero potuto continuare a sostenerlo se ne allontaneranno.
Se la sconfitta di misura, l’elezione ritenuta “rubata” da una buona fetta di americani (non solo i suoi elettori), i 74 milioni di voti, gli lasciavano una grande influenza sul Partito Repubblicano, e quindi la prospettiva di ricandidarsi alla Casa Bianca tra quattro anni, è molto probabile (non certo, ma molto probabile) che l’assalto di una folla di suoi sostenitori al Campidoglio di Washington segni la sua fine politica.
D’altra parte, dal 4 novembre in poi, pur avendo ancora molto da perdere, ha deciso di andare all-in come suo stile, ha giocato con il fuoco, valutando che la gravità di quanto accaduto lo richiedesse. A torto o a ragione, ha perso il controllo della situazione. E, infine, ieri sera non avrebbe dovuto farsi anticipare da Biden nel pronunciare un discorso ufficiale. Avrebbe dovuto condannare subito l’occupazione del Congresso in corso e ordinare senza indugio l’intervento della Guarda nazionale.
Il boomerang della giornata di ieri rischia di tornare indietro per anni e di compromettere la stessa praticabilità politica di futuri leader che vogliano raccogliere la sua eredità, i suoi temi, le sue battaglie: qualsiasi dubbio sulla regolarità del processo elettorale verrà criminalizzato; lo stigma sociale e politico su chiunque esponga simpatie per lui o le sue posizioni moltiplicato; i Democratici passeranno immeritatamente per difensori della Costituzione e il Gop, lacerato, attraverso un doloroso processo di purghe e abiure, gli elettori smarriti e disillusi.
L’irruzione al Congresso è un atto ingiustificabile e controproducente. Ma sarebbe intellettualmente disonesto tacere gli altri fattori che hanno reso incendiario il clima politico negli Stati Uniti portando alle drammatiche scene di ieri. In queste ore, certo, strumentalmente molti addosseranno a Trump (e ai suoi alleati nel Gop) ogni responsabilità, autoassolvendo se stessi. Ma un’analisi disonesta non aiuterà a curare i mali che affliggono la politica americana e a riconciliare una nazione profondamente divisa.
Questa crisi politica è anche il frutto di anni di delegittimazione non solo di Donald Trump, legittimamente eletto nel 2016, ma di mezza America, vilipesa, dimenticata e umiliata da molto prima della sua candidatura.
I Democratici giocano alla delegittimazione degli avversari (e dei loro elettori), chiunque siano, da decenni. Il mito dell’elezione rubata è antico, ma in tempi recenti risale al 2000, alla contestata vittoria di George W. Bush, che sembra aver dimenticato come venne dileggiato e demonizzato. E arriva ai giorni nostri, passando per la bufala Russiagate nel 2016, quando fu teorizzato e praticato un tentativo – questo sì golpista, messo in atto dall’interno delle istituzioni – di abbattere o quanto meno azzoppare la presidenza Trump.
Sullo sfondo, una polarizzazione culturale, prim’ancora che politica, crescente nella società americana: tra le coste e l’interno del continente; tra le aree metropolitane e le zone rurali. Senza dimenticare la minaccia della “Cancel Culture”.
Conseguenze disastrose hanno avuto anche i mesi di rivolte, incendi, saccheggi, “zone autonome”, statue abbattute e violenza politica della sinistra radicale, da Antifa a Black Lives Matter: violenze anch’esse eversive rimaste impunite, tollerate dalle autorità politiche – cittadine e statali – e giudiziarie, assolte dai media. Spesso i sindaci (Democratici) hanno ordinato alla polizia di non intervenire e di ritirarsi, anche se venivano assaltate stazioni di polizia e occupati i municipi; i governatori (Democratici) si sono rifiutati di far intervenire la Guardia nazionale per proteggere le vite e le proprietà dei loro cittadini, nonché la sicurezza degli edifici governativi; spesso i procuratori (anch’essi Democratici) non hanno perseguito i responsabili delle violenze.
(estratto di un articolo pubblicato su Atlantico Quotidiano; qui la versione integrale)