Attenti a definire solo simbolico e quindi innocuo l’attacco iraniano di sabato scorso contro Israele. Come spiega a Start Magazine Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California, quell’episodio si inserisce semmai all’interno dello stato di guerra di fatto tra i due Paesi cominciato il 7 ottobre se non addirittura molto prima. Non è neanche vero dunque, chiarisce il docente, che l’attacco sia scattato esclusivamente in reazione al raid condotto il 1° aprile a Damasco dallo Stato ebraico né è vero, aggiunge, che quella colpita da Israele fosse l’ambasciata di Teheran.
Quello dell’Iran contro Israele è stato davvero un attacco solo simbolico che non voleva fare veramente male?
A qualcuno potrebbe anche sembrare che l’Iran abbia in qualche modo scherzato, ma io fatico a definire scherzo il lancio di oltre 300 ordigni che comunque hanno avuto un costo e l’obiettivo di procurare più danni possibili, anche se non di natura strategica.
Quindi se non è stata una mossa simbolica come la possiamo definire?
L’Iran aveva promesso una reazione dopo il raid con cui Israele il 1° aprile aveva ucciso sette pasdaran a Damasco. Attaccando però Teheran ha ottenuto un’altra cosa, ossia testare la reazione dei Paesi arabi, per capire in particolare il posizionamento di Arabia Saudita, Giordania, Emirati e altre nazioni della zona e se quindi avrebbero accettato un attacco a Israele.
Il test però ha dato esito negativo, perché quei Paesi hanno di fatto aiutato Israele.
Proprio così, quei Paesi anzitutto hanno protetto la propria sovranità violata dal sorvolo di quei 300 ordigni. In secondo luogo sembrano proprio essere scattati gli accordi di sicurezza intessuti in questi ultimi anni dagli Usa in quest’area al fine di includere lo Stato ebraico in un’architettura complessiva che ha proprio lo scopo di difendersi dall’Iran.
L’Iran però, lo ha detto lei stesso, ha attaccato in risposta al raid israeliano del 1° aprile.
Anche questo non è vero perché non tiene conto del fatto che l’Iran è in qualche modo in guerra con Israele sin dallo scorso 7 ottobre, ossia dal giorno in cui Hamas ha messo a segno il suo violento attacco contro Tel Aviv avvalendosi del sostegno logistico e finanziario della Repubblica Islamica.
Ma Israele è da tutti accusata di aver bombardato l’ambasciata di Teheran a Damasco. Non è un atto illegale?
Qui però c’è parecchia confusione ed è dunque necessario un chiarimento: Israele non ha bombardato nessuna ambasciata contrariamente a quanto hanno titolato quasi tutti i giornali. L’ambasciata è rimasta intatta.
Ma l’Iran ha invocato l’articolo 51 della Carta Onu che stabilisce il principio dell’autodifesa.
In realtà l’invocazione da parte dell’Iran dell’articolo 51 non tiene conto del fatto che un Paese può colpire un edificio o un complesso in cui si sta svolgendo una riunione militare ostile, naturalmente a patto di avvertire il governo sul cui territorio si trova l’edificio in questione. Ebbene, tale edificio, che ripeto non era l’ambasciata ma una sua pertinenza collocata poco distante, si trovava a Damasco e dunque in un Paese come la Siria con cui Israele non solo non ha relazioni diplomatiche ma è addirittura in guerra da tempo immemorabile.
Ci sta dicendo che quello colpito a Damasco era un obiettivo legittimo?
L’Iran sostiene che quell’edificio godeva della protezione diplomatica, ma per Israele lì si stava svolgendo una riunione tra alti ufficiali dei Guardiani della Rivoluzione, cosa che ha fatto presumere all’intelligence israeliana che si stesse preparando qualche atto ostile.
Allora la domanda è un’altra: cosa ci facevano e cosa ci fanno i pasdaran iraniani in Siria?
I pasdaran sono presenti da almeno un decennio in Siria dove hanno sostenuto il dittatore Assad durante la guerra civile, creando di fatto una retrovia a pochi chilometri dai confini con Israele che viene impiegata per spostare uomini e armi che vanno in parte a beneficiare Hamas. Le relazioni tra Iran e Siria sono molto forti anche in chiave antiisraeliana. Trovo dunque del tutto naturale che l’intelligence di Tel Aviv legga questi movimenti con preoccupazione specialmente di questi tempi, interpretandoli come una minaccia alla stessa esistenza dello Stato ebraico.