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democrazia americana

Aspettando il 5 novembre: la democrazia americana è in pericolo?

Il Bloc Notes di Michele Magno

Come è noto, il sistema elettorale americano si basa sul principio del “Winner Takes All” (il vincitore prende tutto), per cui il candidato che ottiene la maggioranza dei voti popolari in uno stato ottiene tutti i grandi elettori di quello stato (ad eccezione di Nebraska e Maine, che utilizzano un sistema misto). Ebbene, forse non tutti ricordano che nelle elezioni presidenziali del 2020 Donald Trump perse in Arizona, Wisconsin, Pennsylvania e Georgia per poche migliaia di voti, molti dei quali andati a Jo Jorgensen, la candidata del Libertarian Party.

Nonostante una drastica riduzione dei suoi suffragi rispetto al 2016, quando Gary Johnson prese oltre quattro milioni e mezzo di voti, quello libertario resta saldamente il terzo partito del sistema politico statunitense. Nato nel 1971, non si può definire né di destra né di sinistra. O meglio, si colloca all’estrema destra sui temi economico-sociali e all’estrema sinistra sul tema dei diritti civili. Si batte affinché lo stato stia fuori dalle stanze da letto e dai portafogli dei cittadini. I libertari di stretta osservanza criticano i repubblicani perché ideologicamente ondivaghi e troppo ossequiosi con la destra religiosa; sospettano dei democratici perché innamorati del big government e delle tasse; detestano i neoconservatori perché favorevoli al welfare. In fondo, i libertari sono insieme liberali classici alla von Mises e Hayek, iperliberisti alla Milton Friedman, antistatalisti alla Murray Rothbard.

Alla periferia del bipartitismo americano, che risale al 1856, stazionano quindi altri soggetti. Tuttavia, anche  i “Third Parties” (terzi partiti) culturalmente più attrezzati hanno di fronte ostacoli difficilmente aggirabili. Per essere inseriti nella scheda elettorale, oltre al pagamento di una tassa di registrazione, devono infatti depositare in ogni stato un numero di firme pari a una percentuale dei voti validi espressi nelle elezioni precedenti. Norme che presuppongono una struttura organizzativa capillare, attiva in tutti gli stati dell’Unione. La Corte suprema le ha legittimate per evitare candidature “frivole e fraudolente”, ma in realtà sono state imposte da democratici e repubblicani per preservare il loro oligopolio politico.

Solo nel 1992 l’imprenditore texano Ross Perot riuscì a superare queste barriere grazie al suo cospicuo patrimonio personale. I terzi partiti generalmente non godono invece di donazioni dei grandi gruppi industriali e non dispongono di sufficienti risorse finanziarie autonome, e pertanto riescono a presentarsi solo in pochi stati. Il sistema maggioritario su base statale, quindi, ne limita decisamente la capacità competitiva. Perot, pur avendo ricevuto quasi il 19 per cento del voto popolare a livello nazionale, si piazzò sempre al secondo o al terzo posto nei singoli stati, dopo Bill Clinton e George H. W. Bush, non conquistando nessun grande elettore.

Quelle dei terzi partiti sono allora solo mere candidature di “disturbo”? In parte è così. Perot favorì la vittoria di Clinton con un programma imperniato sul pareggio del bilancio, tagli al welfare, lotta senza quartiere ai trafficanti di droghe, nazionalismo economico, drenando molti consensi dall’elettorato potenziale di Bush senior. E nel 2000 la stessa sconfitta sul filo di lana di Al Gore in Florida, che gli costò la presidenza, va in buona misura attribuita all’emorragia del voto ambientalista verso il candidato del Green Party, Ralph Nader.

Negli Stati Uniti, insomma, due grandi partiti monopolizzano la vita politica da quasi due secoli, e pochissimi altri si spartiscono le briciole; ma non è stato sempre così. Ai suoi albori, c’erano il Partito federalista, fondato nel 1789 da Alexander Hamilton, e il Partito democratico-repubblicano, fondato nel 1792 da Thomas Jefferson e James Madison. Conservatore il primo, liberale il secondo. Il Partito federalista riuscì a far eleggere un solo presidente, John Adams, prima di scomparire dalla scena politica intorno al 1820. Più complessa è stata la vicenda del Partito democratico-repubblicano, caratterizzata da continui e aspri scontri interni.

Scontri culminati nella scissione del 1824, quando Andrew Jackson fondò il Partito democratico e i suoi oppositori il Partito Whig, che nel 1854 prese il nome di Partito repubblicano. Per un paio di secoli si contenderanno l’inquilino della Casa Bianca. E due simboli li resero immediatamente identificabili: un asinello e un elefante (il blu e il rosso si aggiunsero solo molto più tardi, quando il New York Times cominciò a pubblicare le mappe elettorali con questi colori).

Per quanti difetti possa avere, questo assetto politico-istituzionale, inclusi i suoi citati elementi di “disturbo”, ha quindi avuto il suo punto di forza nella stabilità. Questa stabilità è oggi a rischio. Gli eventi traumatici del 6 gennaio 2021, che hanno segnato il primo passaggio di poteri non pacifico dai tempi della Guerra civile (1861-1865), hanno aperto una ferita nella democrazia americana che non si è ancora rimarginata. Trump però non è nato dal nulla. È solo il sintomo più evidente di fratture profonde: geografiche, demografiche e sociali. I due partiti principali incarnano ormai una contrapposizione tra due visioni del mondo inconciliabili, che può mettere in discussione le regole del gioco democratico. Fra il 2016 e il 2020 i voti a favore dei repubblicani sono diminuiti in tre quarti delle aree metropolitane e aumentati in due terzi delle contee rurali.

Il risentimento che gli elettori rurali conservatori provano verso quelle che percepiscono come le “power élite” cosmopolite, è un dato incontrovertibile. E la scelta come vice di Trump del senatore J. D. Vance lo testimonia emblematicamente. Se, come credono molti repubblicani, l’identità dell’America sarà distrutta dall’immigrazione incontrollata, l’obiettivo di escludere i democratici dal potere viene prima di ogni altra preoccupazione, può risolversi addirittura nella trasgressione delle leggi e nell’insubordinazione della piazza. E se, come credono molti democratici, la “società aperta” voluta dai padri fondatori sarà distrutta dai repubblicani che difendono la superiorità dei bianchi, anche tenere questi ultimi lontani dal potere assume un’importanza “esistenziale”.

Beninteso, la maggioranza dei repubblicani non è a favore della violenza, ma l’opinione pubblica è ormai sempre più contagiata da passioni rabbiose. Ci sono sondaggi secondo cui un terzo dei repubblicani e un decimo dei democratici ritengono che “i veri patrioti americani potrebbero dover ricorrere alla violenza per salvare il paese”. Visti gli umori di Trump e la tardiva defezione del suo vecchio competitor Joe Biden, non è chiaro come e chi possa spezzare questa spirale perversa.

Da “Fuga da New York” a “Blade Runner”, da “Minority Report” alle saghe di “Matrix”, “Hunger Games”, “Divergent” e “Maze Runner”, per citare qualche titolo, il filone distopico della cinematografia hollywoodiana ha descritto con un certo compiacimento le tendenze autoritarie della democrazia americana. Film di pregevole fattura, alcuni veri e propri capolavori, che hanno sbancato il botteghino. Forse anche perché esorcizzavano il timore degli spettatori, non solo d’oltreoceano, nei confronti di scenari apocalittici. Passando però dai registi agli studiosi del bonapartismo o cesarismo, i più illustri – da Tocqueville a Weber a Franz Neumann – concordano sul fatto che esso è sorto e si è sviluppato in un contesto democratico (l’ascesa del nazismo al potere non rientra in questa statistica, come molti erroneamente si ostinano a ripetere). Gli Stati Uniti corrono realisticamente questo pericolo? Ne sapremo di più dopo il 5 novembre.

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