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Alan Turing, il padre del computer

Il Bloc Notes di Michele Magno

Oggi è una gloria del Regno Unito. Times lo ha incluso nella lista dei cento personaggi più influenti del Novecento. Dopo una petizione popolare, nel 2009 il premier Gordon Brown si è scusato con i suoi connazionali per il martirio giudiziario che gli è stato inflitto. Sollecitata dalla comunità scientifica, nel 2013 la regina Elisabetta gli ha concesso la “grazia postuma di stato”. Stiamo parlando di Alan Mathison Turing, il pioniere della rivoluzione informatica. In “The Imitation Game”(2014), il film diretto da Morden Tyldum che lo fatto conoscere al grande pubblico, è un genio anticonformista e asociale fino ai limiti dell’autismo. Pressappoco come il Nobel per l’economia John Nash di “A Beautiful Mind” (2001). È un cliché cinematografico infallibile, confezionato su misura per la notte degli Oscar. Dallo stereotipo dello scienziato eccentrico e stravagante si discosta, invece, la biografia di Turing scritta da Nigel Cawthorne (“L’enigma di un genio”, Newton Compton, 2014).

Alan nasce il 23 giugno 1912 in un sobborgo di Londra, dove i genitori si erano appena trasferiti. Julius, il padre, era un alto funzionario amministrativo della provincia di Madras, nell’India britannica. Sara, la madre, era figlia di un ingegnere delle ferrovie dell’impero. Nel 1918 viene iscritto all’Hazelhurst, un convitto dove il piccolo allievo mostra subito una spiccata inclinazione per i numeri e le scienze naturali. A otto anni comincia ad abbozzare un trattatello sul microscopio. Scarso nei giochi di squadra, preferisce dedicarsi agli scacchi. In una lettera a John, suo fratello maggiore, si lamenta perché la maestra di algebra “trasmetteva un’idea sbagliata di cosa si intenda veramente con la x”. Nel 1926 è a Sherborne, un prestigioso istituto privato del Dorset.

A Sherborne era ambientato “The Loom of Youth” (“Il telaio della giovinezza”), pubblicato nel 1917. L’autore del romanzo, l’ex studente Alec Waugh, non aveva fatto mistero dei rapporti omosessuali che si consumavano tra le sue mura. Alan lo legge quando aveva già scoperto di essere attratto dai suoi coetanei, anche se cercava di reprimere ogni tentazione con maratone campestri estenuanti. Era affascinato soprattutto da Christopher Mortom, il suo più intimo amico. Con lui si divertiva a creare codici con la dima, una sagoma intagliata che, poggiata sulla pagina di un libro, formava frasi astruse. Con lui discuteva di fisica, chimica e astronomia, la loro ultima passione. Per fare bella figura con lui aveva calcolato il valore del “p greco” fino al trentaseiesimo decimale.Christopher era inoltre l’esperto pianista che lo aveva introdotto nel mondo della musica classica, e con i suoi gusti raffinati lo aveva educato alla socievolezza e alle buone maniere. Di salute cagionevole, nel 1930 muore di tubercolosi.

Alan viene devastato dalla sua perdita: “Benedicevo la terra che calpestava -confessa disperato alla madre- e sento che lo incontrerò di nuovo da qualche parte[…]. Faceva sembrare tutti gli altri [amici] terribilmente ordinari”. Pur affranto dal dolore, continua a coltivare con impegno i suoi interessi scientifici. Studia il tedesco e i fondamenti della meccanica quantistica. Si aggiudica la medaglia d’oro “Edoardo VI” per la matematica e una borsa di studio all’università di Cambridge. Conseguito il diploma di scuola superiore, segue un corso di addestramento presso la caserma londinese di Knightsbridge, dove è promosso con i galloni di ufficiale di riserva.

Nell’autunno del 1931 è al King’s College. Nel santuario del liberalismo anglosassone l’omosessualità, sebbene illegale, era ampiamente tollerata. Ed è lì che Alan decide di andare a letto per la prima volta con un compagno di corso, James Atkins. La legge nota come “emendamento Labouchere” (1885) puniva con pene severe gli “atti di oscenità grave” tra adulti consenzienti dello stesso sesso (sarà abolita nel 1967). Forse anche per questo motivo, oltre che per una congenita timidezza, si teneva lontano dall’effervescente mondanità dei salotti cantabrigesi e del circolo di Bloomsbury. Così come disdegnava i riti del Ten Club o della Massinger Society, i cui soci dibattevano di filosofia fino a notte fonda.

Pure, le porte di quei templi del piacere estetico e intellettuale non erano chiuse ai matematici: Godfred Harold Hardy (anche lui omosessuale) e Bertrand Russel si muovevano nello stesso milieu di Edward Morgan Forster e di John Maynard Keynes. Solo che entrambi possedevano un appeal con cui Turing non poteva competere. Se ne stava quindi in disparte, e leggeva: riviste come “New Statesman” e libri come “Erewhon” (1871) di Samuel Butler, in cui le macchine si impadroniscono del potere e sottomettono gli uomini. Non era però insensibile alle lotte sociali e agli ideali pacifisti dell’epoca. Non nascondeva la sua simpatia per le idee di Arthur Cecil Pigou, alfiere di una più equa distribuzione della ricchezza. E nel 1933 accenna alla madre l’intenzione di visitare l’Unione Sovietica: “Sono entrato in un’organizzazione -le confida- chiamata Consiglio antimilitarista, piuttosto comunista sul piano politico. Il programma prevede principalmente di organizzare scioperi dei lavoratori delle fabbriche di munizioni e di armi chimiche, visto che il governo si prepara a entrare in guerra”.

Nel 1934 si laurea con il massimo dei voti, e l’anno successivo diventa fellow del King’s. Riflettendo sul quesito posto da David Hilbert all’inizio del secolo e riformulato negli anni Venti, Alan getta le basi dell’innovazione che più ha segnato il Novecento. Immagina quindi una macchina in grado non solo di effettuare calcoli numerici, ma qualunque operazione descrivibile mediante un algoritmo, cioè una successione di istruzioni eseguibili in modo automatico. In altre parole, immagina una macchina (hardware) in grado di decodificare e simulare le istruzioni, ossia i programmi (software), per avere la “macchina universale”. E i computer sulle nostre scrivanie sono esattamente come Alan li aveva pensati: macchine che, come tutte le macchine, sanno fare soltanto un numero finito di operazioni, ma che fanno quelle giuste.

La Macchina di Turing, come verrà chiamata più tardi, è esattamente questo: una macchina capace di emulare qualunque programma che gli viene dato. Nella primavera del 1936 consegna il saggio “On Computable Numbers” a Max Newman, il suo mentore al King’s. Da lui apprende che Alonzo Church era giunto alle sue stesse conclusioni, sebbene attraverso un procedimento del tutto diverso e meno sofisticato. Per Alan è un shock. Ma dopo qualche settimana viene invitato proprio da Church per un dottorato di ricerca all’università di Princeton, di cui era docente. A settembre si imbarca a Southampton e salpa per l’America.

Nonostante la freddezza con cui viene accolto inizialmente, la sua esperienza all’Institute for Advanced Study sarà positiva. Fondato nel 1932, l’Istituto aveva attirato le menti più brillanti d’Europa in fuga dai nazisti: da Hermann Weyl a Einstein, da John von Neumann al prodigio della logica Kurt Gödel. Nonostante il suo carattere schivo, Alan partecipava alle attività sportive del campus. Il suo hobby era la corsa e, incoraggiato dalle buone prestazioni, accarezza perfino l’idea di gareggiare alle Olimpiadi. Il suo talento viene notato da von Neumann, che gli propone di proseguire le sue ricerche per un altro anno. Turing accetta, ma si concede una lunga vacanza a Cambridge dove familiarizza con Ludwig Wittgenstein, allora docente del Trinity College.

Rientrato a Princeton, lavora sui codici e sui sistemi di decifrazione. Terminato il dottorato, von Neumann gli offre di diventare suo assistente. Alan rifiuta, e nell’autunno del 1938 a New York sale a bordo del piroscafo Normandie per raggiungere l’Inghilterra. Aveva con sé un paio di bagagli e un sacchetto di carta marrone, in cui era avvolto un moltiplicatore elettrico costruito con le sue mani. Per quanto rudimentale, era in grado di cifrare messaggi moltiplicando tra loro i numeri binari. L’idea anticipava quel metodo crittografico che protegge i dati delle nostre carte di credito quando facciamo acquisti con Internet.

La guerra con la Germania era ormai imminente, e Turing non esita a servire la Corona. Non era un patriota fanatico, ma odiava Hitler. Il 4 settembre 1939 arriva a Bletchley Park, una villa monumentale situata una cinquantina di miglia a nord-ovest di Londra. Insieme a un team di matematici, gli viene assegnato il compito di decifrare il codice Enigma. Il suo inventore, Arthur Scherbius, l’aveva brevettato nel 1918 per venderlo a banchieri e uomini d’affari. Potenziato dai tecnici del Terzo Reich per scopi militari, era contenuto in una minuscola cassetta di legno, con una tastiera da macchina per scrivere standard. Per violarla, occorreva però fare i conti con circa duecento milioni di combinazioni possibili.

Per fortuna, Turing non doveva partire da zero. Infatti, già nel 1932 tre matematici dell’università di Poznan -Marian Rejewski, Henryk Zigalski e Jerzy Rózycki- avevano compreso che se il codice era generato da una macchina, poteva essere decodificato da un’altra macchina. Alan si mette subito all’opera con Joan Clarke, la sua principale collaboratrice (con lei avrà un fugace fidanzamento). Il 18 marzo 1940 a Bletchey viene installata “Victory”, soprannominata Bomba per il suo ticchettio costante. Era un modello trecentomila volte più veloce di quello realizzato dai polacchi, ed era costata un decimo del prezzo di un bombardiere Lancaster. “Agnus Dei”, la seconda Bomba, viene piazzata ad agosto.Mentre infuriava la battaglia d’Inghilterra, le trasmissioni della Luftwaffe venivano ormai regolarmente intercettate; anche quelle che confermavano la rinuncia all’invasione della Gran Bretagna pianificata dal Führer.

È a Bletchey che Turing diventa leggendario per le sue bizzarrie e la sua sciatteria. Andava in bicicletta con la maschera antigas per difendersi dal polline, si recava in ufficio vestito col pigiama, incatenava la sua tazza da the al tubo di un termosifone, usava una cravatta per stringersi i pantaloni. Stranezze a parte, Turing e i suoi hacker ante litteram erano considerati da Winston Churchill come “oche dalle uova d’oro che non schiamazzano mai”. Nel maggio del 1941 a Whiteall, sede del governo, vengono insigniti di un’onoreficenza e ricevono un bonus in denaro. Allora erano già riusciti a decrittare anche i messaggi della Kriegsmarine, neutralizzando gli attacchi dei sottomarini U-boat ai mercantili inglesi che trasportavano cibo e beni di primaria necessità. Con la sconfitta dei “lupi dell’Atlantico”, l’Inghilterra non correva più il pericolo di essere affamata.

Nel frattempo, uno degli assistenti di Turing, l’ingegnere telefonico Tommy Flowers, aveva cominciato a progettare nei laboratori di Dollis Hill un prototipo di computer elettronico digitale. Nel gennaio del 1944 Colossus era già operativo a Bletchey. In effetti, era gigantesco: aveva le dimensioni di una stanza e pesava una tonnellata. Elaborando venticinquemila caratteri al secondo, forniva agli Alleati preziose informazioni sui piani del nemico. Con la costruzione del Colossus, antenato dei microprocessori Intel, Flowers aveva dimostrato che era possibile realizzare la Macchina di Turing.

Nel 1946 John Womersley, responsabile del dipartimento di matematica del National Phisical Laboratory (NPL) di Teddington, propone a Turing di costruire il primo computer elettronico multifunzionale. Alan non ci pensa due volte, e in quarantotto foglietti con cinquantadue grafici spiega la sua “macchina calcolatrice elettronica” (ACE). Il governo britannico stanzia centomila sterline per finanziare il progetto. Nello stesso anno, von Neumann rivela all’opinione pubblica americana che in Pennsylvania quella macchina (ENIAC) era già stata costruita. In realtà, era ancora priva di un elemento cardine, il programma memorizzato di Turing, che verrà poi inserito in un nuovo calcolatore (EDVAC). Da quel momento il fisico ungherese verrà incensato come il “padre del computer”. Deluso dalla disinvoltura di von Neumann e dall’ostilità che gli manifestava il direttore dell’NPL, sir Charles Darwin (nipote del teorico dell’evoluzionismo), Alan nel 1948 si prende un anno sabbatico a Cambridge. Si iscrive al Moral Science Club, ha una relazione con Neville Johnson, uno studente del King’s, gioca a scacchi con Pigou, si occupa di neurologia e fisiologia. Decide, infine, di trasferirsi all’università di Manchester, dove lo aveva chiamato Max Newman. Nel maggio del 1948, prima di dimettersi dal Laboratorio di Teddington stende un rapporto intitolato “Macchine intelligenti”. Cestinato da sir Darwin come il compitino di uno scolaretto, anticipava il concetto di algoritmo generico, che troverà applicazione nelle previsioni finanziarie e nella produzione di medicinali.

Nell’ottobre del 1950 la rivista Mind pubblica “Macchine calcolatrici e intelligenza”, il testo più sovversivo e più controverso di Turing. Nel 1936 aveva dimostrato che una macchina non può decidere se una proposizione è vera o falsa. Ora intendeva dimostrare che, se riesce ad imitare il comportamento umano, la macchina “pensa”. A tal fine, inventa il “gioco dell’imitazione” ( che dà il titolo al film), più noto come test di Turing: “La pretesa che le macchine non possono sbagliare [nel gioco dell’imitazione] sembra strana […]. S’afferma che colui che interroga potrebbe distinguere la macchina dall’uomo semplicemente ponendo a entrambi un certo numero di problemi aritmetici. La macchina verrebbe smascherata per la sua tremenda precisione. La risposta a questo è semplice. La macchina, programmata per giocare al gioco, non cercherebbe di dare la risposta esatta […]. Introdurrebbe deliberatamente degli errori, in modo studiato apposta per confondere chi interroga”. Le frontiere dell’intelligenza artificiale (espressione coniata nel 1956 dal matematico americano John McCarthy) erano ormai aperte. Secondo Turing, doveva passare almeno un secolo prima che un computer potesse superare il suo test. Il 7 giugno 2014, giorno del sessantesimo anniversario della sua morte, il computer “Eugene” lo ha superato, sia pure parzialmente, nella sede londinese della Royal Society.

A Manchester Turing conosce in Oxford Street un ragazzo diciannovenne, Arnold Murray. Gli offre il pranzo e lo invita nella sua casa di Wilmslow per il week end. Dormono insieme, e il mattino seguente Alan si accorge che mancavano dei soldi dal suo portafoglio. Arnold protesta la sua innocenza. Dopo qualche giorno l’appartamento di Alan è svaligiato. Turing denuncia il furto alla polizia. Arnold confessa che era stato commesso da un suo amico, Harry. Interrogato dagli agenti, quest’ultimo racconta che Arnold era stato a letto con il matematico inglese. Gli agenti tornano a Wilmslow e, invece di arrestare il ladro, arrestano il derubato con l’accusa rubricata nell’emendamento Labouchere. Turing viene processato e condannato a un anno di libertà vigilata, a condizione di sottoporsi a un ciclo di trattamenti a base di estrogeni per “guarire dalla sua malattia”. Gli effetti collaterali della castrazione chimica saranno umilianti. L’agile podista diventa ben presto grasso e gli cresce il seno. Viene considerato anche un pericolo per la sicurezza dello stato. Nel 1951 erano fuggiti a Mosca Guy Burgess e Donald Mclean, e Cambridge era sospettata di essere il cervello di una rete spionistica fin dagli anni Trenta, quando Turing vi studiava.

Pur tenuto sotto stretta sorveglianza dai servizi segreti, la sua dedizione alla scienza resta immutata. E diventa perfino più sfrontato nelle sue “saghe avventurose”, in Norvegia e a Parigi. La mattina dell’8 giugno del 1954 la domestica lo trova cadavere nel suo letto, con accanto una mela con un morso. Più tardi si saprà che conteneva del cianuro.In due giorni l’inchiesta viene chiusa. Il verdetto: “Suicidio da squilibrio mentale”. Il 12 giugno il corpo di Turing viene cremato a Woking, nel Surrey. Solo nel 1977 New Scientist pubblicherà un saggio di Brian Rendell, professore all’università di Newcastle, che rendeva giustizia al ruolo che aveva avuto nella Seconda guerra mondiale e alla sua figura di scienziato. Da allora la fama di Turing è cresciuta a tal punto che il celebre logo di Apple è stato intepretato come un tributo alla sua memoria. Steve Jobs non lo ha mai confermato, ma per altri manager di Cupertino allude invece alla mela di Isaac Newton. Può darsi, ma allora perché quel logo ha un morso?

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