Leggendo l’accordo firmato a Doha dall’Amministrazione Trump, già dal titolo si evince l’imbarazzo dei colloqui tra la super potenza globale, gli Stati Uniti, con un gruppo di insorti: Agreement for Bringing Peace to Afghanistan between the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban and the United States of America. (“Accordo per portare la pace in Afghanistan tra l’Emirato islamico dell’Afghanistan che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come uno Stato ed è conosciuto come talebano e gli Stati Uniti d’America”).
Analizzando le decisioni politiche determinate dal mandato popolare affidato dagli americani alle ultime due amministrazioni USA – “terminare le guerre per sempre” – e le conseguenze dell’accordo con i talebani che hanno portato al caotico ritiro dall’Afghanistan, in controtendenza al mainstream mediatico dove si parla di “catastrofe assoluta” di “fine dell’Alleanza Atlantica” di “dominio cinese”, di “appannamento dei valori occidentali” ed altre disastrose premonizioni, vanno evidenziati tre elementi:
- i Talebani non hanno sconfitto nessuno. Gli Stati Uniti non sono stati sconfitti in combattimento dal nemico, ma con le loro decisioni hanno (momentaneamente) indebolito la propria leadership;
- non vi è stata alcuna “Intelligence Failure”, nessun fallimento dell’Intelligence;
- L’Afghanistan non è caduto perché non è mai esistito. L’Afghanistan non è uno Stato come lo intendiamo noi occidentali (Ente dotato di potestà territoriale, che esercita tale potestà a titolo originario, in modo stabile ed effettivo e in piena indipendenza da altri enti -Treccani). È un territorio con una civiltà che si è fermata al medioevo, abitato da tribù litigiose, gruppi etnici, confessioni islamiche e signori della guerra che manovrano giovani uomini con Kalashnikov russi ed ora anche con modernissimi armamenti americani.
Prima di noi, i sovietici volevano che gli afghani fingessero di essere comunisti. Noi occidentali volevamo che fingessero di essere democratici. Ma gli afghani non sono cittadini ‘afghani’: sono pashtun, uzbeki, baloch, hazara, musulmani sunniti e sciiti. Tutto il resto è solo un tentativo di interpretare quella parte del mondo secondo i nostri valori.
La tragica e rapida cessione di Kabul ai talebani non può essere quindi catalogata come un fallimento della Nato e nemmeno dell’intelligence: l’Intelligence non ha alcun potere decisionale ma sovente rappresenta un comodo capro espiatorio per decisioni prese a causa di considerazioni politiche sbagliate. L’intelligence è una scienza imprecisa che alla fine di una approfondita analisi fornisce al decisore politico diversi scenari secondo condizioni presenti in quel momento e con elementi in continuo cambiamento. Nel caso in questione le proiezioni e i livelli di rischio di esecuzione della ritirata delle truppe occidentali variavano in base alla presenza militare statunitense, alle dinamiche interne afghane, alla pianificazione e preventiva attuazione di un piano di evacuazione dei civili, alla credibilità dell’impegno dei talebani a rispettare quanto negoziato con le amministrazioni Trump prima e Biden dopo. Gli scenari per un ritiro sicuro andavano da quelli in cui gli Stati Uniti mantenevano circa 5.000 militari, la maggior parte delle basi operative militari e di intelligence e gli aeroporti esistenti operativi per assicurare la messa in sicurezza degli armamenti e l’evacuazione delle decine di migliaia di cittadini occidentali. Invece, la ritirata è stata decisa con la sola presenza di circa 2.500 militari Usa, assolutamente insufficienti per mantenere le basi e soprattutto gli aeroporti operabili. Le scelte determinate da fattori politici interni hanno portato il presidente Biden a non considerare adeguatamente le valutazioni e gli scenari delle Agenzie di Intelligence, nonostante gli avvertimenti che facevano presagire un risultato a dir poco incerto di una ritirata strategica affrettata e non adeguatamente pianificata.
Una ritirata strategica, dal punto di vista militare, è un arretramento delle truppe per sottrarsi ad un’offensiva del nemico o a un suo tentativo di accerchiamento, ma può essere anche una strategia per potersi attestare su posizioni migliori di difesa e per contrattaccare nel caso di ritorsioni contro i propri militari o i civili da evacuare. Il ritiro di tutte le truppe militari di occupazione come quella ordinata dal presidente Biden è una ritirata strategica, ma derivante da ragioni politiche e non militari. I talebani non erano in grado di rappresentare una minaccia per le forze alleate.
La mancanza di un’adeguata programmazione e di un’altrettanto meticolosa attuazione di un piano di evacuazione di decine di migliaia di cittadini americani e dei partner della coalizione, compreso tutto il personale civile non diplomatico, addestratori, consulenti, personale medico, dei servizi di supporto e le migliaia di cittadini afghani che in questi lunghi 20 anni di guerra hanno collaborato e creduto nell’Occidente, hanno creato le condizioni affinché si realizzasse uno dei peggiori scenari possibili, previsto dalla CIA, ma ritenuto poco probabile dal presidente Biden e dal suo Staff di sicurezza nazionale.
Tutto ciò premesso, chiunque pensi che gli Usa stiano abbandonando gli alleati e rinunciando al proprio ruolo di leadership globale si sbaglia di grosso. La disastrosa gestione operativa del ritiro dall’Afghanistan rappresenta un momento di crisi dell’Amministrazione Biden ed uno shock geopolitico, ma saranno in molti a doversi preoccupare per la nascita dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
Ad iniziare dalla Cina, che nonostante l’intensa campagna mediatica e di influenza strategica contro gli Usa è probabilmente la potenza più preoccupata del ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, molto di più di quanto abbia pubblicamente lasciato intendere. Pechino dovrà investire ingenti risorse per monitorare le azioni e le ripercussioni del dominio talebano sulla sicurezza, gli interessi politici ed economici cinesi. La Cina ha mantenuto aperto un canale di comunicazione con i talebani nel corso degli anni, ma nonostante ciò non ha ancora formalizzato relazioni diplomatiche con il neocostituito Emirato Islamico dell’Afghanistan. Dopo l’annuncio del previsto ritiro degli Stati Uniti, Pechino ha cercato rassicurazioni negli incontri con le delegazioni talebane su questioni diplomatiche e di sicurezza, e si è offerta di assistere nella ricostruzione economica del paese.
I potenziali interessi economici che potrebbero derivare dagli investimenti della Belt and Road Initiative e dall’estrazione mineraria, dovranno però essere attentamente bilanciati con i molteplici fattori di rischio che la drammatica situazione afghana pone oggi, così come in passato. Anche Pechino dovrà impegnarsi ad ottenere garanzie dai talebani affinché l’Afghanistan non diventi un rifugio sicuro per le organizzazioni terroristiche – come il Movimento islamico del Turkmenistan orientale. Un altro fattore di rischio per la Cina per lo sviluppo dei rapporti con i talebani è rappresentato dalla possibilità che l’Afghanistan possa essere usato come base per attacchi alla sua provincia occidentale dello Xinjiang, per il modo in cui sono trattati gli Uiguri. È anche improbabile che Pechino intervenga militarmente per colmare un deficit di sicurezza o per proteggere i suoi interessi in Afghanistan. I precedenti attacchi ai progetti della Nuova Via della Seta o al personale cinese all’estero non hanno fino ad ora convinto il governo cinese a coinvolgere l’Esercito Popolare di Liberazione. L’esperienza dell’armata sovietica e degli Usa rappresenta un drammatico monito dei pericoli di coinvolgimento in un conflitto in Afghanistan. Ma, l’obiettivo più importante, la priorità militare di Pechino si trova a Est. I recenti sviluppi in Afghanistan rappresentano una preoccupazione molto seria per la Cina – a causa dello strategico spostamento dell’impegno militare di Washington dal Medio Oriente all’Indo-Pacifico, e alla Cina stessa.
Diverso è lo scenario strategico per la Russia, che potrebbe sfruttare l’attuale indebolimento politico di Biden per tentare di recuperare i rapporti con l’Occidente e soprattutto con alcuni paesi Europei. Il governo russo in questa fase caotica ostenta calma e neutralità e la capacità della sua ambasciata di Kabul di poter operare senza alcuna limitazione – sotto l’apparente protezione dei talebani – rappresenta una espressione di potere e influenza in netto contrasto con le attuali capacità politico-diplomatiche dei governi occidentali. Anche se per la Federazione Russa i talebani rimangono un’organizzazione terroristica, il Cremlino sembra pronto a impegnarsi in trattative con i loro capi e non ha perso l’occasione per trasformare la caotica ritirata delle Forze alleate in un enorme spot propagandistico ad uso interno in vista delle elezioni della Duma del mese prossimo, definendo i tentativi di esportare la democrazia occidentale come il fallimento dell’America e dei suoi alleati.
Ma anche per Mosca non mancano motivi di forte preoccupazione per l’evolversi degli eventi. Tutti ricordiamo come negli anni ’90 l’estremismo islamico dall’Afghanistan ha cercato di minare non solo l’Asia centrale ma la Russia stessa. In parte per questo motivo, il presidente Putin non ha mai ostacolato l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan. Per un certo periodo, la Russia e gli Stati Uniti hanno perfino condiviso l’impegno a combattere il terrorismo internazionale. Anche prima della presa di Kabul da parte dei talebani, Mosca aveva iniziato ad anticipare il riemergere di rischi simili a quelli verificatisi durante il suo ultimo periodo di governo, evidenziando la minaccia rappresentata dalla ripresa di ingenti flussi di droga e militanti jihadisti. Se l’Afghanistan tornerà nuovamente a rappresentare un elevato rischio di terrorismo al di fuori dei propri confini, la Russia potrebbe ricercare accordi di cooperazione con l’Occidente mentre in questa fase sfrutta la percezione di una leadership Usa indebolita per aumentare la sua pressione sull’Ucraina, sull’Europa ed in altre aree di suo interesse strategico.
Anche la Turchia si ritrova coinvolta in questa nuova crisi che la costringerà ad implementare una politica di insediamento dei rifugiati condivisa se vorrà limitare l’immigrazione irregolare nel paese e continuare a percepire ingenti risorse economiche dalla UE. I tentativi di assumere un ruolo nello scacchiere regionale del presidente turco Recep Tayyip Erdogan si sono palesati sin dall’inizio della crisi in Afghanistan, esprimendo posizioni non del tutto negative sull’avanzata dei talebani, mostrando interesse nel corteggiarli e sfruttando con rapidità l’insediamento del nuovo regime islamico, mettendo in chiaro che di crisi di rifugiati non ne vuol sentir parlare, non è affar suo. Certamente il presidente Erdogan cercherà di rafforzare la propria credibilità con l’amministrazione Biden e altri partner occidentali utilizzando le sue strette relazioni con il Qatar e il Pakistan (entrambi hanno coltivato stretti legami con alti esponenti talebani) per tentare di accreditarsi come un mediatore tra l’amministrazione talebana e l’Occidente. Per il premier turco la crisi in Afghanistan può rappresentare un’opportunità per recuperare parte della legittimità persa a causa degli errori di politica estera negli ultimi anni, ma in assenza di un quadro geopolitico chiaro e senza la copertura di una missione NATO, anche la Turchia affronta una prospettiva pericolosa con un Afghanistan talebano.
In questo nuovo scenario, che sarà condizionato anche dalle strategie di altre potenze regionali come Iran, India, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, ed auspicando che anche l’Europa batta un colpo, lo slancio mediatico di cui i talebani avevano bisogno lo hanno ricevuto perfino dalla cooperazione diretta dei loro nemici, attraverso una efficace campagna di propaganda cibernetica inaspettatamente alimentata dalle Big Tech americane. In questi giorni migliaia di profili sulle piattaforme social diffondono messaggi di propaganda e disinformazione talebana, addirittura facendo diventare virale una foto che paragona Kabul a Iwo Jima, raffigurante quattro talebani in tenuta mimetica che alzano la bandiera dell’Emirato Islamico come fecero gli americani in Giappone. Attraverso il loro nexus mediatico fatto di video, social, deep web e dark web, oltre ad attirare centinaia di migliaia di nuovi follower, i talebani radicalizzano potenziali adepti e manipolano con successo anche i media e politici occidentali, con raffigurazioni e “percezioni distensive” della loro offensiva. “Percezioni distensive” non supportate dalla storia del movimento talebano, dall’ideologia fondamentalista islamica di questa organizzazione, dalla negazione di diritti fondamentali e dalle immagini che arrivano da Kabul in questi giorni.
I talebani sono un’organizzazione che non può essere considerata dalla comunità internazionale un “regime distensivo” e nemmeno un interlocutore affidabile con cui negoziare e riconoscere politicamente. La loro guerra eterna, il Jihâd, continuerà. Sia se saremo ancora in Afghanistan o no.
Al Qaeda e l’Isis torneranno ad operare dall’Afghanistan. Così come innumerevoli altri combattenti jihadisti.
Noi occidentali non abbiamo mai capito veramente cos’è il Jihâd, e l’interpretazione della militanza armata è una fra le molteplici posizioni della dottrina strategica islamica.
E probabilmente saremo nuovamente attaccati in una forma o nell’altra. Ma ciò non significa che l’Occidente si sia arreso al trionfo dell’oscurantismo più feroce.