La riconquista talebana dell’Afghanistan non è arrivata a Ferragosto come un fulmine a ciel sereno. Il ritorno al potere degli studenti islamici era stato preparato dalla precedente amministrazione americana a guida Trump con la firma degli accordi di Doha. La legittimazione del movimento come attore politico ha subito un’accelerazione negli ultimi due anni grazie all’attività diplomatica dell’ufficio di rappresentanza talebano in Qatar. Ultimo tassello il recente viaggio in Cina di uno degli storici fondatori del gruppo, Abdul Ghani Baradar per incontrare il Ministro degli Esteri Wang Yi.
Talebani garanti della stabilità in Afghanistan
Come scrive Francesca Manenti, analista del CESI nel rapporto “Il ritorno dei Talebani a Kabul”, con la rapida vittoria talebana sul governo centrale “il movimento sembra così aver voluto dare la dimostrazione di essere l’unico garante possibile del controllo e della sicurezza in Afghanistan, per rilanciare il proprio ruolo sia all’esterno sia all’interno del Paese”. Gli studenti del Corano sono ora interessati ad accreditarsi come affidabili per gestire “i dossier economici legati alla ricostruzione del Paese sia per garantirsi delle sponde politiche su cui contare sul piano internazionale. L’appoggio di attori come Cina e Russia, infatti, potrebbe rivelarsi particolarmente prezioso per scongiurare l’isolamento, qualora una parte della Comunità Internazionale, in primis Stati Uniti, dovessero decidere di imporre sanzioni internazionali contro il neo-nato governo talebano”.
I nuovi interlocutori della comunità internazionale
Alla presa del potere i talebani hanno annunciato che non ci saranno ripercussioni per i cittadini afgani che in questi 20 anni hanno collaborato con gli americani. “Non discrimineremo le donne, i diritti saranno tutelati dalla Sharia e l’Afghanistan non sarà minaccia per alcun paese al mondo. Abbiamo perdonato tutti, nessuna inimicizia”. Così ha detto Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, a favore di telecamera. Le parole sono rivolte a un pubblico esterno e hanno la finalità di rassicurare la comunità internazionale. Gli stati della coalizione guidata dagli USA devono spiegare ai cittadini perché hanno mandato i loro eserciti a combattere un nemico al quale ora hanno riconsegnato l’Afghanistan. “Le modalità con cui il gruppo ha gestito l’avanzata, infatti, mettono in evidenza l’interesse della leadership di Quetta di ripulire l’immagine del movimento, per segnare definitivamente il passaggio dall’essere il principale attore dell’insorgenza al diventare un nuovo soggetto istituzionale – scrive l’analista Manenti del centro studi diretto da Andrea Margelletti -. La scelta stessa di attendere alle porte della capitale la resa del governo dell’ormai ex Presidente Ashraf Ghani o gli inviti rivolti ai militanti di rispettare la popolazione delle città conquistate nei giorni precedenti hanno sottolineato la volontà dei talebani di non apparire come conquistatori, ma come i legittimi vincitori della guerra. Rispetto agli Anni ’90, quando avevano espugnato militarmente Kabul per imporre l’Emirato Islamico, i talebani sembrano ora intenzionati a dimostrare di aver affrontato un processo di maturazione come soggetto politico e di poter essere considerati dalla Comunità Internazionale un interlocutore a tutti gli effetti, con cui dialogare alla pari”.
Il senso di 20 anni di guerra
Gli sviluppi di ferragosto rendono inevitabile, per l’opinione pubblica occidentale, domandarsi a cosa siano serviti 20 anni di guerra e i 3232 militari caduti negli anni dell’occupazione occidentale, tra i quali 53 italiani. I“Se l’obiettivo primario di Washington era evitare che il Paese fosse un rifugio sicuro per il terrorismo internazionale islamico dopo l’11 settembre, l’assenza di grandi attentati negli Usa negli ultimi due decenni è un segno di successo – scrive Alessandro Marrone nella sua analisi per Affari Internazionali -. Un successo però dovuto sia alla guerra in Afghanistan, sia alle operazioni di intelligence, forze speciali e droni in più Paesi – in fondo, Osama Bin Laden è stato ucciso in Pakistan”. Uno degli obiettivi, ora negato dalle parole del Presidente Usa Biden, era anche la costruzione di “istituzioni afghane che si avvicinassero agli standard minimi dell’Asia centrale quanto a servizi essenziali come giustizia, istruzione e sanità, e una qualche forma di rappresentanza politica”. Obiettivo raggiunto e testimoniato dalle “centinaia di migliaia di esuli afghani tornati per ricostruire il Paese, i milioni di bambini e adolescenti a scuola, le decine di milioni di voti espressi nelle elezioni, le dighe costruite per portare acqua ed elettricità, le strade e gli ospedali”.
La fine dell’esperienza costituzionale
Al netto dei proclami iniziali “il ritorno all’Emirato Islamico segna, di fatto, il termine dell’esperienza costituzionale e repubblicana costruita in questi anni e l’inizio di una nuova stagione di fondamentalismo confessionale delle istituzioni – continua l’analista del CESI -. Come già è iniziato ad accadere in alcune delle città e dei villaggi conquistati, ciò comporterebbe un passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali e civili conquistati dalla popolazione e un deterioramento delle condizioni di vita soprattutto per le donne e le minoranze religiose. In questo senso, il ripristino tout court dell’Emirato potrebbe non essere gradito ad alcuni dei leader locali, che hanno sempre combattuto contro l’insorgenza e che hanno costruito il consenso all’interno delle proprie comunità sull’opposizione all’avanzata talebana e al ritorno di una stagione di oscurantismo nel Paese”.
Un esempio per altri gruppi terroristici
Il ritorno dei talebani al comando dell’Afghanistan potrebbe essere un incoraggiamento per altri “gruppi di resistenza in nuove enclave definite su base etnica, che rischiano non solo di minare il già complicato processo di costruzione di un’identità nazionale afghana avviato negli ultimi due decenni, ma, soprattutto, di condannare il Paese ad una nuova stagione di violenza”, si legge nel report de CESI. Le ripercussioni, però, potrebbero avere un’eco ancora più esteso e diventare un esempio per gruppi di insorgenza di matrice fondamentalista. “In primis per il gruppo di Teherik e Taliban Pakistan (TTP), l’insorgenza talebana pakistana che dal 2014 ha trovato rifugio nelle aree orientali dell’Afghanistan e che potrebbe ora galvanizzarsi dalla vittoria del movimento afghano per provare a rimettere in piedi la militanza al di là del confine contro le autorità di Islamabad”, si legge ancora nel rapporto.
Il rischio di una nuova radicalizzazione: la “talebanizzazione” di Al Qaeda
Il comando talebano potrebbe non essere sufficiente a frenare la riorganizzazione di gruppi terroristici che puntano a una nuova ondata di radicalizzazione. “Lo sforzo dei talebani potrebbe essere concentrato principalmente sul contrasto alla formazione di Daesh ancora presente nel Paese (Daesh nel Khorasan), con il quale il gruppo ha sempre avuto uno scontro non solo ideologico, ma soprattutto politico – scrive l’analista CESI Francesca Manenti -. Per quanto riguarda al-Qaeda, invece, il rapporto tra la rete fondata da Bin Laden e i talebani è diventato talmente osmotico nel corso del tempo che, ad oggi, una rinascita del gruppo come entità a sé stante e a tutto tondo appare piuttosto remota. Le operazioni internazionali di contrasto al terrorismo effettuate a tappeto in questi anni, infatti, hanno smembrato la rete qaedista e hanno portato ad una progressiva integrazione di una parte dei militanti tra le fila dell’insorgenza talebana. La creazione di legami familiari attraverso matrimoni tra miliziani qaedisti e donne appartenenti alle tribù pashtun fedeli ai talebani, inoltre, ha ulteriormente approfondito questo rapporto che si è tradotto in una sorta di talebanizzazione della formazione qaedista in Afghanistan”.
Isolazionismo americano
Il ritiro degli Usa dall’Afghanistan testimonia una linea di continuità nella politica estera statunitense, da Obama a Biden passando per Trump, di stampo isolazionista. “L’unica alternativa possibile era mandare migliaia di altri soldati a combattere una guerra che – ha detto il Presidente Biden – molti afghani sembrano non aver voluto combattere”. Il Presidente statunitense ha confermato che l’obiettivo americano in Afghanistan era “impedire altri attacchi terroristi sul territorio statunitense” e non il “nation building”. “La sconfitta viene addolcita alla Casa Bianca – ha scritto Lucio Caracciolo, direttore di Limes, su “La Stampa” – inscrivendola nello sforzo complessivo di ridurre la sovraesposizione in teatri secondari o in prolungata sedazione, tra cui spicca lo spazio euromediterraneo, per concentrarsi nel contenimento di Cina e Russia”.
La geopolitica della classe media
Per il presidente Usa restare in Afghanistan sarebbe stato un errore. Biden mette in atto “la geopolitica della classe media, basata sullo scansare le crisi internazionali per sanare invece le fratture socio-culturali domestiche varando piani economici iperkeynesiani in cui l’amministrazione Biden conta di investire fantastiliardi – scrive Lucio Caracciolo -. Scelta accompagnata dalla richiesta agli “amici e alleati” di rafforzare il presidio delle rispettive aree di competenza”. Il presidente della Cdu e candidato alla cancelleria tedesca Armin Laschet reputa la ritirata occidentale “il più grande fallimento che la Nato abbia mai subito dalla sua creazione”. Come si legge nella newsletter dell’ISPI “L’incognita del nuovo Emirato islamico grava sulle frontiere europee, con il suo possibile carico di profughi, insicurezza e terrorismo, mentre Washington persegue il suo calcolo politico interno, in un solco apparentemente indistinguibile da quello dell’isolazionismo trumpiano. E di questo l’Europa dovrà tener conto”.
Le fibrillazioni geopolitiche
La caduta di Kabul sta provocando fibrillazioni negli equilibri geopolitici nella regione. “Di questi i più visibili paiono la sconfitta dell’India causa allargamento all’intero Afghanistan della sfera d’influenza del Pakistan (peraltro strutturalmente vacillante, con le sue circa 160 testate atomiche) e la facilitazione del corridoio cinese verso Oceano Indiano (porto di Gwadar) e Mediterraneo via Afghanistan-Pakistan – aggiunge il direttore di Limes -. Sulla Russia gravano invece gravi incognite, tali da spingere Mosca a stringere patti informali di controassicurazione con Kabul rispetto a rischi di infiltrazione jihadista nel suo “estero vicino”, financo nelle sue regioni meridionali esposte all’islamismo militante”.
Gli insegnamenti per l’Europa e l’Italia
La precipitosa ritirata statunitense potrebbe fornire all’Europa e all’Italia preziosi insegnamenti. “Invece di battere bandiera a casaccio in giro per il mondo, addestrando e armando i nostri futuri nemici solo per ostentarci serventi alla causa del Superiore e ottenere l’esatto opposto di quanto proclamato, potremmo finalmente concentrare le nostre scarse risorse, non solo militari, nelle aree di immediato interesse – conclude Lucio Caracciolo -. Con la benedizione di Washington, o almeno dei suoi apparati meno disorientati. La priorità italiana è lo Stretto di Sicilia, non quello di Taiwan. È il deserto il deserto del Sahara con le proiezioni saheliane, non quello del Rigestan, il “paese delle sabbie” afghano. Sono i disputati rilievi balcanici con i loro santuari jihadisti, non lo Hindu-Kush”.
I 3 scenari secondo l’Ispi di Magri
Tre domande si imporranno nei prossimi giorni e mesi, secondo Paolo Magri, vicepresidente esecutivo dell’Ispi: “1. Che governo saprà e vorrà darsi l’emirato islamico? Sarà davvero diverso e più inclusivo (basta pochissimo ovviamente) della precedete esperienza, oltre vent’anni fa? Esiste davvero, dentro il team di comando talebano, una corrente attenta alle reazioni indignate di parte del mondo? 2. Cosa cambierà per Biden, per l’America, per l’Occidente dopo questa più che evidente débacle? Con che credibilità – dopo aver consegnato l ‘Afghanistan ad un regime con precedenti terrificanti – potrà guidare la “riscossa delle democrazie” nei confronti dei regimi del mondo? Biden pagherà anche un costo politico interno e se sì, a favore di chi? 3. Mosca e Pechino trattengono a fatica il compiacimento per l’ennesimo fallimento a stelle e strisce seppur preoccupate di una nuova fonte di instabilità vicino ai loro confini. Cosa cambierà negli equilibri nella regione? La Cina, soprattutto, riuscirà a portare l’Afghanistan nella sua sfera di influenza, senza restare a sua volta impantanata? Ci sarebbe, ovviamente, una quarta domanda sull’Europa, ma conosciamo già la risposta: più profughi sulla rotta balcanica e più allerta per una possibile (e certo non auspicata) nuova fiammata di atti terroristici, sull’onda di una vittoria che neanche i talebani immaginavano così a portata di mano”.