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Polonia

Addio Ventotene per una miglior governance europea?

Dove e perché il progetto originario ha deviato dal tracciato segnato dai padri fondatori e incorporato nei Trattati di Roma. L'analisi dell'avvocato Riccardo Gotti Tedeschi

 

Una volta acclarata la pericolosa portata del Manifesto di Ventotene, annotate le differenze costitutive che corrono tra il centralismo di Ventotene e la collegialità pluralista del Trattato di Roma, occorre comprendere dove e perché il progetto originario ha deviato dal tracciato segnato dai padri fondatori e incorporato nei Trattati di Roma. L’impostazione culturale e politica che segna la cifra del modello adottato dall’Ue negli ultimi 10 anni (dalla crisi finanziaria del 2007, per intenderci) ha una radice filosofica – e religiosa, i.e. luterana – nel cd. razionalismo, come ampiamente sottolineato da Corrado Ocone in diverse occasioni e in ultimo nel suo recentissimo pamphlet.

Ma quali sono le caratteristiche del razionalismo? Ce lo spiega un teorico della politica del 900’, Michael Oakeshott, poco conosciuto in Italia ma pubblicato grazie agli amici dell’Istituto Bruno Leoni, e ampiamente ripreso da Ocone. Nel suo saggio “Razionalismo in politica” (1962), Oakeshott affronta l’ossessione per la perfezione e l’uniformità come atteggiamento mentale della politica moderna. Questa pulsione ordinatoria e omologante la possiamo riscontrare ampiamente in un modus operandi che caratterizza oggigiorno (non solo nell’Unione Europea, dunque…) le tante proposte politiche volte a disciplinare e regolamentare i comportamenti umani secondo un’idea astratta di benessere stabilita a priori e dall’alto. E qui son dolori. Affidare alla politica il compito di adottare soluzioni in astratto perfette (criterio peraltro opinabile) per ovviare alle naturali imperfezioni del mondo reale comporta una conseguenza abbastanza scontata: l’invocazione o l’esercizio di una sorta di “paternalismo di stato”, che deresponsabilizza l’individuo, lo spegne di ogni libertà e crea un conformismo (v. anche il pensiero cd. politicamente corretto…) da cui è difficile evadere se non a costo dell’esclusione sociale. Ocone sottolinea come nella visione di Oakeshott non ci debba mai aspettare che la propria felicità venga dalla politica o dallo stato: si conclude quindi con un’elementare verità, ovvero che perfezionismo e paternalismo sono i più radicali nemici di una democrazia liberale. Detto principio ha guidato la deviazione da Roma a una rispolverata Ventotene, ammodernata, evoluta: la razionalizzazione sociale, economica e politica alla base di una Unione Europea improntata a criteri di perfezione ed omologazione.

ACCENTRAMENTO DIRIGISTA VS SPONTANEISMO ORGANIZZATIVO: PROBLEMI DI GOVERNANCE

Il rischio di un accentramento di potere è una macrostruttura politica ed amministrativa (improntata alla burocrazia) che si allontana dalle sacrosante esigenze di confronto che ogni comunità esige nell’auto-regolamentarsi. Il passaggio a questo modello segna la negazione dello spontaneismo organizzativo: in questo modo è il “potere” a creare la società, a far esistere le varie costituzioni, determinando una dicotomia tra comunità reale e stato di diritto, e così impedendo lo sviluppo di un rapporto virtuoso tra istituzioni e cittadini. In opposizione a questo, l’applicazione del principio di sussidiarietà ridimensiona il ruolo dello stato in una posizione ottimale, assegnandogli i poteri di mediare, integrare, indicare le linee programmatiche da seguire rispetto ai problemi locali, in armonia con la normativa di primo livello (ad esempio, regolamenti e direttive comunitarie, comunicazioni, etc.). Il principio di sussidiarietà non solo si oppone alle visioni accentratrici, ma offre una risposta ai tentativi dogmatici di espropriare la dignità dell’iniziativa individuale, che sboccano in macrostrutture tipiche di un “superstato” europeo che tutto decide in dispregio all’individuo trattato come suddito. Un “superstato” con l’indubbio sapore di distopie orwelliano (efficacissima espressione utilizzata da Ocone!).

Ecco il progetto razionalistico di matrice illuminista, che si lega con il positivismo, dando vita in ambito culturale – tra l’altro – al cd. politicamente corretto. Ma perché ci interessa il principio di sussidiarietà all’interno della governance europea? Perché, tra le altre cose, una sussidiarietà efficiente tutela e promuove, all’interno dell’Unione Europea, il raccordo tra la rappresentanza delle identità culturali e il ruolo delle istituzioni comunitarie. Ma è proprio qui che si sono manifestate – vedasi Trattato di Lisbona, 2007 – le temute discrasie che hanno contribuito a deviare da Roma a Ventotene, dalla sussidiarietà al centralismo razionale.

DA MAASTRICHT A LISBONA, PASSANDO PER IL FALLIMENTO DELLA CONVENZIONE EUROPEA

Il Trattato di Maastricht (1992) segna un punto chiave nel processo di integrazione. Istituisce l’Unione Europea e crea i famosi tre pilastri3 (poi unificati in unico pilastro dal Trattato di Lisbona), e soprattutto introduce i criteri per l’ingresso nell’Euro da parte degli Stati Membri aderenti (fatti salvi Regno Unito e Danimarca, che ottennero in corso di negoziazione il diritto di opt-in). Poco più di 12 anni dopo, la Convenzione Europea tenta di redigere il progetto di Costituzione Europea, cercando di ricondurre a unità un sistema istituzionale frammentato e incoerente: l’esito conflittuale dei lavori della Convenzione (con significativa omissione del riconoscimento delle comuni radici cristiane giudaico-cristiane nel preambolo della costituzione), lo scarso appeal da parte dell’opinione pubblica e la mancata adozione del trattato sottoscritto dagli stati membri nel 2004 hanno reso impossibile il progetto di reductio ad unum. L’impossibilità di allineare due differenti processi decisionali – quello previsto per l’integrazione economica (metodo comunitario, e quindi sovranazionale) e quello previsto per la cooperazione politica e di difesa (metodo intergovernativo) – ha generato un clash ineluttabile. Del resto, ricondurre al metodo intergovernativo l’integrazione economica avrebbe significato la sua distruzione, mentre d’altra parte allocare la politica estera e difesa a processi sovranazionali unitari ha incontrato (comprensibilmente) un netto rifiuto degli Stati Membri.

Il Trattato di Lisbona (2007), approvato dopo un periodo di riflessione seguente al flop della mancata ratifica della Costituzione Europea, è stato immaginato come “l’ultimo dei trattati” vista anche la difficoltà incontrata a raggiungere un compromesso accettabile da tutti i gli Stati Membri. Come sopra anticipato, il Trattato ha posto in essere un vero e proprio depotenziamento del principio di sussidiarietà, sintetizzabili in due passaggi-chiave: attraverso un ribaltamento del principio di competenza concorrente a detrimento del potere legislativo degli Stati Membri: in pratica, gli Stati Membri esercitano la propria competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria ovvero ha deciso di cessare di esercitarla (tradotto: residualità delle competenze in capo agli Stati Membri nei settori di competenza concorrente); e attraverso dei meccanismi di early warning previsti in capo ai Parlamenti nazionali e azionabili qualora il processo legislativo ignori il principio di sussidiarietà, ma che tuttavia non sono vincolanti per la Commissione Europea. Con la crisi finanziaria del 2007, si è imposta l’esigenza di apportare numerosi interventi integrativi mediante l’adozione di direttive e regolamenti tesi a rafforzare la sorveglianza e il coordinamento delle politiche economiche nazionali per far rispettare i limiti relativi al disavanzo e al debito stabiliti dal Trattato di Maastricht, modificando il Patto di stabilità e crescita del 1997, fino all’adozione nel 2012 del nefasto Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria, il cosiddetto “Fiscal Compact” (che oggi, più che mai, richiede un’urgente rinegoziazione dei parametri, ma prima di tutto occorre autorevolezza nel saperlo fare). Le misure adottate in questi anni post-crisi hanno messo in luce un marcatissimo approccio razionale come già descritto sopra, evidenziando la leadership di Francia e Germania e spostando l’equilibrio della governance europea da un’impronta faticosamente sovranazionale ad un regime più spiccatamente intergovernativo, un cambiamento di rotta che ancora oggi condiziona pesantemente l’Unione. Inoltre, sorge il dubbio che l’allargamento politico a 28 stati membri del 2004 (con l’estensione ai paesi del nord-est), abbia contribuito a provocare un’allocazione del potere a favore della Germania. Questo tipo di governance centralista, soprattutto sulle questioni relative all’Euro, è verosimilmente più adatta ad una diplomazia “nazionale” tra paesi “indipendenti” piuttosto che alla gestione comune di una banca centrale, priva di un’entità statuale.

L’EUROPA CHE ESCE DALLE ELEZIONI: SFIDUCIA VERSO ESTABLISHMENT

L’Europa post-elettorale mostra un nuovo equilibrio tra Popolari e Socialisti da una parte, e Liberali e Verdi dall’altra. Come saggiamente evidenziato da Marta Dassù, il declino dei partiti del vecchio europeismo (a cominciare dalla Cdu della Merkel) è stato assorbito da un europeismo meno “istituzionale” ma più ancorato a tematiche care all’ultima generazione di votanti. Vedasi ad esempio l’affermazione dei Verdi in Germania (34%), con elettori fra i 18 e i 24 anni di età. La nuova geografia politica dell’Ue influenzerà dunque il funzionamento del Consiglio Europeo: non dimentichiamo che in occasione della crisi finanziaria del 2008 ma anche della recente crisi migratoria, Consiglio e Parlamento (co-decisori dell’attività legislativa) hanno aumentato entrambi il proprio peso a spese della Commissione, che si rivela sempre più un pallido esecutivo. Il triangolo istituzionale che regge il processo decisionale dell’Unione Europea si è dunque spostato verso metodo intergovernativo. Quanto ai partiti euro-scettici, una breve precisazione va fatta, a correzione di alcune analisi troppo affrettate che si sono lette nei giorni post-voto.

La composizione di questo “fronte” è estremamente diversificata sul piano genetico, e per nulla omogenea (vedasi ad esempio Lega e Rassemblement National). Il pur variegato fronte “sovranista” ha avuto un successo marcato in Italia e in Gran Bretagna, più attenuato in Francia, Germania e Polonia. Questa cintura immaginaria, che da UK passa per Francia, Italia, e arriva in Polonia attraverso la Germania, si qualifica come “sovranista” ma è soprattutto una corrente euroscettica e riformista, declinata in diverse forme da Stato Membro a Stato Membro.

In questa luce, è davvero difficile valutare il significato di Brexit di due anni fa e compararlo con le recenti affermazioni di Lega in Italia o di Farage in UK. La sensazione – lo dico sommessamente – è che questi esiti non vadano interpretati in via troppo scontata come una sfiducia per se verso l’Europa, bensì come una sfiducia verso un’Europa a trazione franco-tedesca (sempre più tedesca) e ad un establishment insufficiente. Establishment che ha platealmente deviato dal progetto originario dei padri fondatori, oppure sarebbe meglio dire che ha perpetuato un disegno accentratore, un’Unione centralizzata e burocratica appoggiata su un’asse preferenziale franco-tedesca che tenta con tutti i mezzi di auto-preservarsi (la weberiana “gabbia d’acciaio”). Gli esperti sono scettici su un’opposizione parlamentare unitaria e coesa da parte del fronte “sovranista”. D’altra parte, è già evidente che tenere insieme la maggioranza non sarà affatto facile: Germania, Francia e Spagna avranno alle spalle i tre diversi gruppi principali a Strasburgo, inoltre l’agenda verde sarà trasversale e complicherà scelte decisive sul prossimo bilancio (politiche fiscali, politica della concorrenza e politica estera). Non ultimo, dovrà essere concluso il trattato di “exit” con la Gran Bretagna.

Come sottolineato da alcuni esperti, saranno i governi pro-europei, più che la minoranza “sovranista”, a dover dimostrare che l’Europa può rinnovarsi e funzionare per proteggere i suoi cittadini in un’epoca di competizione globale.

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