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A Roma è cambiata la geografia del potere, ma l’anima della città è rimasta la stessa

Il Bloc Notes di Michele Magno

Il termine “sublime” (“das Erhabene” in tedesco) allude in Kant a quello che è degno di ammirazione e di rispetto, in quanto mostra -simultaneamente- la nostra insignificanza e la nostra superiorità di esseri razionali nei suoi confronti, come è il caso del celeberrimo “cielo stellato sopra di me” e della “legge morale in me”. In un testo pubblicato nel 1757, “Inchiesta sul bello e sul sublime”, Edmund Burke sposta il concetto dalla dimensione morale alla dimensione vitalistica delle passioni; in particolare, di quella più accecante, la paura, che toglie alla mente ogni capacità di ragionare, alterando inoltre il sentimento di identità dell’individuo: “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime, ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo può sentire”.

Leggendo questa pagina del “Cicerone britannico”, ho pensato alle scosse emotive provocate dal governo pentaleghista, alla sua capacità di colpire l’immaginazione degli italiani, di farla vagare nei campi luminosi di fantastiche promesse di cambiamento piuttosto che in quelli, certo meno esaltanti, del buon senso e della serietà nella gestione del potere. Calma e gesso, tuttavia. Ci aspetta un anno non solo bellissimo (copyright Giuseppe Conte), ma sublime.

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Il collasso politico e morale della della giunta Raggi è arrivato al suo epilogo? Difficile pronosticarlo. Nella Capitale è cambiata la geografia del potere, ma l’anima della città in fondo è rimasta la stessa: storie di ordinaria disonestà, di affaristi della domenica, di piccole tangenti, di bustarelle alle clientele e di favori alle corporazioni. Rimane cioè -oggi come ieri- senza “grandi peccatori”. Come scriveva Ennio Flaiano mezzo secolo fa, insieme al denaro la sola grande attrazione resta il sesso. Ma “questa inclinazione del romano verso la Donna non prende mai l’aspetto del rovinoso vizio e della passione. Il Sesso è un conforto, anch’esso vagamente parafamiliare. L’estate scorsa è venuta a Roma Lily Niagara a fare spettacoli di spogliarello. Dopo quattro giorni, nel locale dove lavorava, si entrava con la riduzione dell’Enal” (“La solitudine del satiro”).

In altre parole: il vizio a Roma è sempre stato razionale e utilitario, un fatto esteriore, un costume, una moda. Sta qui anche il carattere profondamente meschino della corruzione che infetta la sua società politica e civile. Ci voleva solo la penna di qualche infoiato giornalista per immaginare che i Cinquestelle ne fossero immuni per grazia divina.

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Lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” scompare e riappare come un fiume carsico nella propaganda elettorale dei Cinquestelle. Dopo un lungo silenzio, è tornato agli onori della cronaca ( solo per pochi giorni, in verità) grazie a Pasquale Tridico. Eppure, il fallimento del disegno di legge sulle 35 ore (1998) avrebbe dovuto suggerire qualche riflessione. Infatti, come Fausto Bertinotti ieri, il presidente dell’Inps oggi è caduto nello stesso errore: quello di una visione ottocentesca del mercato del lavoro, come se fosse spaccato a metà tra occupati e disoccupati. Mentre da noi resta forte il dualismo tra lavoro regolare e lavoro nero, per tacere di quello precario e del fenomeno dei working poors, ossia di chi pur avendo un impiego è vicino alla soglia della povertà.

In questo contesto, la tendenza dominante è quella dell’allungamento della giornata lavorativa sociale, costituita dalla somma dei regimi d’orario vigenti in tutte le articolazioni del sistema produttivo e dei servizi. Tendenza a cui spesso non sfugge nemmeno lo stesso settore centrale della manodopera, laddove esiste un divario tra orari contrattuali e orari di fatto. Questa realtà, fatta di molto lavoro mal retribuito e mal tutelato, non può essere esorcizzata con qualche alzata d’ingegno. “Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice, che però è sempre sbagliata”, diceva George Bernard Shaw.

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