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Referendum Giustizia

A proposito del referendum sulla giustizia

Il Bloc Notes di Michele Magno

Pur consapevole che ai lettori di questa rubrica può importare poco o niente l’opinione di chi scrive, domani voterò Sì ai cinque quesiti abrogativi del referendum sulla giustizia promosso da Lega e Partito radicale. Un Sì convinto ai tre quesiti relativi alla separazione delle funzioni tra pm e giudice, alla valutazione professionale dei magistrati, alla elezione dei componenti togati del Csm. Ma anche un Sì ai due quesiti che pure presentano qualche punto critico: abolizione della legge Severino e limitazione delle misure cautelari.

Come ha ben spiegato Ermes Antonucci sul Foglio (6 giugno), l’obiettivo del primo è quello di abrogare le norme che prevedono la sospensione degli amministratori locali, come presidenti di regione o sindaci, in seguito a sentenze di condanna anche soltanto di primo grado per alcuni reati gravi (come associazione mafiosa o reati contro la pubblica amministrazione). Si tratta norme paradossali, visto che secondo la nostra Costituzione (articolo 27) i cittadini sono innocenti fino a sentenza definitiva, eppure in passato queste norme hanno portato in diversi casi alla sospensione di amministratori locali in virtù di condanne soltanto di primo grado, poi annullate nei successivi gradi di giudizio, quando ormai il danno, dal punto di vista del funzionamento delle istituzioni democratiche, era stato compiuto. Tuttavia, il quesito prevede l’abolizione dell’intera legge Severino, quindi anche delle parti che stabiliscono l’incandidabilità dei politici che sono stati condannati in via definitiva per gravi reati.

Il secondo mira a limitare i casi di applicazione delle misure cautelari (carcerazione preventiva, arresti domiciliari, divieto di dimora…). Secondo la normativa attuale il giudice, su richiesta del pm, può emettere una misura cautelare in tre casi: pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e pericolo di reiterazione del reato. Il quesito interviene su quest’ultimo aspetto. Se il quesito venisse approvato sarebbe possibile procedere alla privazione della libertà per il rischio di “reiterazione del medesimo reato” solo per i delitti di criminalità organizzata, di eversione o per i reati commessi con uso di armi o altri mezzi di violenza personale.

L’intento è commendevole, soprattutto se si considera l’alto numero di cittadini incarcerati e privati della libertà prima del giudizio, e poi spesso prosciolti dalle accuse. Per altro verso, anche se non tutti i giuristi sono d’accordo, l’abrogazione della norma rischia di rendere le misure cautelari inapplicabili per diversi reati socialmente assai “sensibili” come il furto, la rapina e, in taluni casi, di stalking, se compiuti senza armi e senza violenza personale.

Per spiegare perché ho superato queste perplessità, mi sia consentito ricorrere a una metafora letteraria.

Scritta tra il 1612 e il 1614, “Fuente Ovejuna” è forse la commedia più famosa di Lope de Vega, drammaturgo tra i più prolifici della letteratura spagnola. È ambientata nella seconda metà del Quattrocento in Andalusia, durante la lotta tra la pretendente al trono di Castiglia, Giovanna la Beltraneja, e i sovrani cattolici Isabella e Ferdinando. Fuente Ovejuna è il nome di un borgo che fa parte di una “commenda” (una specie di signoria) dell’ordine militare di Calatrava. Il suo “comendador” (comandante) è un partigiano della Beltraneja, Férnan Gómez. Despota prepotente e crudele, impone lo “ius primae noctis” a tutte le fanciulle del luogo. Quando imprigiona il giovane Frondoso e rapisce la sua promessa sposa Laurenzia, il popolo si ribella e lo decapita.

Vinta la guerra di successione, Isabella e Ferdinando inviano un giudice per istruire il processo contro i rivoltosi. Nonostante le torture, quando vengono interrogati tutti rispondono che a uccidere il tiranno è stato Fuente Ovejuna, ossia i suoi trecento abitanti. Il giudice, non potendo scoprire i veri autori dell’omicidio, allora li assolve per insufficienza di prove. Piuttosto che imprigionare degli innocenti, infatti, preferisce lasciare liberi i colpevoli. Ecco, se fosse stato un giustizialista, li avrebbe tutti incarcerati.

Insomma, giustizialismo è: meglio un innocente in galera che un colpevole fuori; garantismo è: meglio un colpevole fuori che un innocente in galera.

 

 

 

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