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Contenuti digitali e fuga dal generalismo. Se si perde il racconto della società italiana

Ogni mese su Youtube vengono visualizzate 2,9 miliardi di ore di filmati. Se un solo “spettatore” dovesse osservare tutto il contenuto visualizzato in soli 30 giorni, dovrebbe avere a sua disposizione 326294 anni. Questa curiosità basta da sola a offrire un’immagine sin troppo nitida delle profonde discontinuità prodotte dalla travolgente digitalizzazione dei contenuti.

 

Mai nella storia degli uomini la descrizione delle abitudini comunicative aveva dovuto fare riferimento a ordini di grandezza così superiori all’orizzonte esistenziale dei singoli, così moltiplicati in una frantumazione delle occasioni di consumo mediale.

I primo osservatori di fenomeni così dirompenti ebbero, quindi, gioco facile nel decretare la morte del medium televisivo. Una piattaforma seducente e indiscutibilmente più performante dei media a stampa, in grado di colonizzare percentuali significative della popolazione (oltre il 90%!), doveva comunque soccombere di fronte alla pervasività senza confini dei media audiovisivi digitali.

Malgrado quegli eccessi di nuovismo, dobbiamo oggi riconoscere che quelle previsioni erano sostanzialmente sbagliate: la televisione (meglio ancora il contenuto televisivo) gode di buona salute, proprio perché ha saputo ibridarsi con il digitale. Se dobbiamo trovare una vittima eccellente di questo passaggio di secolo, con particolare riferimento alla società italiana, questa è il generalismo.

Cosa succede di fronte alla perdita di rilevanza dei media di massa, capaci di esercitare un impatto omogeneo sulle persone? Anche in questo caso è necessario smarcarsi dalla logica manichea ed evidenziare aspetti positivi e negativi. Un accesso tendenzialmente interattivo ai contenuti e la moltiplicazione delle fonti di informazione è senza dubbio un elemento di miglioramento del panorama comunicativo.

Questa democratizzazione potenziale si scontra, però, con le differenze sociali nel corredo di competenze tecniche e cognitive necessarie a un uso concretamente virtuoso delle opportunità del digitale. Il capitale sociale e culturale delle persone, con le sue differenze, rimane una variabile fondamentale per comprendere i fenomeni di accesso al digitale a differenti velocità.

 

Ma, a un livello più generale, occorre ammettere che siamo di fronte a un cambiamento epocale là dove il generalismo ha rappresentato per la quasi totalità degli individui un dispositivo privilegiato di socializzazione alla modernità, una piattaforma condivisa di costruzione e comprensione della società.

I percorsi personalizzati all’interno delle tante reti tecnologiche rappresentano altrettante ipotesi di società che rischiano di diventare estranee e rancorose tra di loro. Già oggi, trovare un minimo comun denominatore tra le giovani generazioni protagoniste del digitale e il mondo degli adulti è impresa da spiriti forti. Questo progressivo rintanarsi in nicchie di utenti fortemente coese al loro interno rischia di sgretolare quel vocabolario minino di simboli che anche la tanto vituperata televisione aveva contribuito ad alimentare. Se la RAI del dopoguerra aveva offerto l’occasione di costruire una lingua comune rispetto ai tanti dialetti del nostro paese oggi, anche per effetto della crisi delle narrazioni condivise, rischiamo una nuova Babele dei valori.

 

(Mario Morcellini – Professore Ordinario in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi. È direttore del Coris – Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università di Roma La Sapienza)

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