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Digital Act

Tutte le tensioni tra l’Ue e le big tech (sempre più ricche): Digital Act e non solo

Francia e Olanda chiedono la possibilità per un'autorità europea di vietare alle piattaforme che dominano il mercato - 'gatekeeper' - di negare l'accesso di terzi ai loro servizi senza una giustificazione oggettiva. Che cosa si agita sul Digital Service Act

Non c’è solo il Digital Act (Start ne ha parlato qui) a tenere tesi i rapporti tra il Vecchio continente e le Big del tech. Faccenda che avrà anche ripercussioni pure in politica estera, tanto a Ovest (Washington), quanto a Est (Pechino), dove hanno sede i colossi che l’Unione europea intende arginare con regole molto più rigide.

Francia e Paesi Bassi hanno infatti sottoscritto un documento congiunto sul nuovo regolamento europeo per le piattaforme digitali (Digital Service Act, Dsa), che la Commissione Ue dovrebbe presentare entro la fine del 2020 per chiedere lo stop alle pratiche sleali fin qui poste in essere dai giganti del Web.

COSA CHIEDONO FRANCIA E OLANDA ALL’UE

Per la precisione, i sottosegretari di Stato dei due Paesi, Cédric O e Mona Keijzer, chiedono “una serie di obblighi e sanzioni delle pratiche vietate” posti in essere dalle Big tech con “un approccio flessibile e proporzionato caso per caso” e la possibilità di “comminare multe su misura”. Per esempio, sia la Francia sia l’Olanda sono concordi nel richiedere la possibilità per un’autorità europea di vietare alle piattaforme che dominano il mercato – ‘gatekeeper’ – di negare l’accesso di terzi ai loro servizi senza una giustificazione oggettiva. Ancora, l’obbligo di condividere dati specifici, garantire l’interoperabilità dei servizi, e offrire opzioni alternative ai clienti. Il Dsa, si legge nel documento, “deve consentire all’autorità di regolamentazione di comminare alle piattaforme le sanzioni adeguate in caso di violazioni”, come le “ammende”, con un approccio “su misura” per scoraggiare le pratiche sleali, si legge nel ‘non paper’, in cui tuttavia si sottolinea come “un intervento” normativo “troppo pesante ostacolerebbe l’innovazione” in Europa.

CHE COS’È IL DIGITAL ACT

Il Digital Act – nome abbreviato del Digital Service Act – sarà il nuovo corpus normativo dell’Ue sui servizi digitali. La normativa si pone da un lato l’obbiettivo di riordinare e aggiornare le leggi in materia, dall’altro di fermare lo strapotere che ha permesso ai colossi del Web di arricchirsi sfruttando finora le lacune legislative e la debolezza politica dei singoli Stati del Vecchio continente e delle Istituzioni comunitarie, portando questa ricchezza altrove (principalmente negli USA e in Cina, che infatti guardano con preoccupazione a questo intervento della Commissione) così da permettere anche lo sviluppo di realtà digitali europee. La finalità, insomma, è arginare i gatekeeper che finora, in situazione di monopolio o, al più, oligopolio, hanno imposto le proprie regole tanto agli utenti quanto ai concorrenti.

L’ITER DI RIFORMA

Se proprio in queste settimane la Commissione europea ha concluso le consultazioni pubbliche sulle responsabilità per i servizi digitali, sugli strumenti per i gatekeepers e sulla modernizzazione delle regole sulla concorrenza, che contribuiranno a comporre il pacchetto del Digital Act entro il prossimo 2 dicembre, Parlamento europeo, affiancato dalle Commissioni per il Mercato interno e la protezione dei consumatori e quella per la Giustizia, gli affari interni e le libertà civili hanno presentato altrettante relazioni che, pur non vincolanti, dovrebbero essere votate dalla plenaria – Covid permettendo – nella seconda metà di ottobre e forse già nella prossima settimana.

L’UE METTE ALL’INDICE I GIGANTI DELL’E-COMMERCE?

Ma Facebook, Apple e Google, assieme ad altre 17 grandi aziende, secondo quanto riporta il Financial Times, sarebbero già finite in una lista nera dell’Ue che, in modo non dissimile a quanto sta avvenendo negli States, vorrebbe imporre loro l’obbligo di una maggiore condivisione dei dati con i concorrenti più piccoli così da limitare la concentrazione e salvaguardare le regole che tengono in equilibrio il delicato gioco della concorrenza ma, soprattutto, ottenere più trasparenza sulla raccolta delle informazioni.

FRANCIA CAPOFILA CONTRO I COLOSSI DEL WEB

Come si è visto, alle consultazioni fatte dalla Commissione e ai pareri non vincolanti di Parlamento e commissioni per il Mercato interno e Giustizia, si aggiungono ora le richieste di Francia e Olanda. La Francia, in particolare, in quest’ultimo periodo ha dimostrato di essere parecchio agguerrita contro i colossi del Web, prima rincorrendo Facebook per chiedergli di saldare le tasse non pagate (104 milioni, qui l’articolo completo della testata francese Capital che aveva dato lo scoop), poi, nel pieno della pandemia, ha messo le ganasce ai furgoncini di Amazon, accusata dalla giustizia francese di aver trascurato la tutela della salute dei suoi dipendenti dai rischi del di Coronavirus.

IN POCHI MESI COLPITE AMAZON E GOOGLE

Il colosso dell’e-commerce guidato da Jeff Bezos a fine aprile è stato così costretto a chiudere temporaneamente i suoi sei centri di distribuzione in tutto il Paese. In più, nel medesimo periodo, l’antitrust francese ha sentenziato che Google deve pagare le case editrici e le agenzie di stampa francesi per riutilizzare i loro contenuti: “Le pratiche di Google hanno causato un grave e immediato danno al settore della stampa, mentre la situazione economica degli editori e delle agenzie di stampa è fragile”, ha scritto l’Autorité de la Concurrence francese.

E POI C’È LA GAFA…

Del resto la Francia è in prima fila anche nella lotta per la riscossione dei tributi che i giganti del tech di origine statunitense e cinese devono ai Paesi del Vecchio continente. Lo scorso anno ha varato una web tax subito soprannominata “Taxe GAFA” (dalle iniziali di Google, Amazon, Facebook e Apple, a indicare i suoi principali obbiettivi messi nel mirino) che ammonta al 3% del fatturato e si applica alle aziende del web con ricavi di oltre 750 milioni di euro a livello globale di cui almeno 25 legati all’utilizzo di utenti situati nell’Hexagone.

MA INTANTO I COLOSSI SONO SEMPRE PIU’ RICCHI…

La serietà del Digital Act sarà commisurata all’importo delle sue sanzioni: dovranno essere su misura, come chiedono Francia e Olanda, al soggetto sanzionato, per spaventarlo davvero. Sarebbe ingenuo credere che i 104 milioni che Parigi è riuscita a ottenere da Facebook vada oltre la vittoria di Pirro. In più, anche gli ultimi dati, per esempio quelli pubblicati dall’Area Studi Mediobanca, che ha analizzato i bilanci dei 25 giganti del Web nel periodo 2015-2019 e nel primo semestre del 2020, dicono che questi Paperoni virtuali sono sempre più ricchi. Nel 2019 il fatturato aggregato delle 25 top aziende ha toccato quota 1.014 miliardi di euro. Amazon, in particolare, fa da sola un quarto del totale, con 249,7 miliardi raggiunti lo scorso anno.

ANCHE PERCHE’ PAGANO TASSE IRRISORIE…

Google, Amazon, Facebook, Apple, Airbnb, Uber e Booking.com, però, nonostante i sempre più lauti guadagni hanno versato nel 2019 in tutto all’Agenzia delle entrate italiana appena 42 milioni di euro. “Le società di diritto italiano di Amazon, scriveva Repubblica lo scorso 15 settembre, che nel nostro Paese fattura 4,5 miliardi, hanno girato al Fisco 11 milioni anche se il colosso guidato da Jeff Bezos si auto attribuisce un carico fiscale diretto nel nostro Stato pari a 85 milioni, cifra che però comprende anche gli oneri contributivi sugli stipendi dei dipendenti”. E così capita pure che Google paghi meno tasse della società La Doria che fa pelati.

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