Risolvere una disputa in soli 20 minuti, risparmiando tempo e denaro: ecco il tribunale civile (cinese) che opera solo in rete
Trovare una soluzione alle cause civili, in 20 minuti. In Italia sembra un sogno, in Cina è una realtà. Almeno per le udienze che hanno a che fare con la rete internet. A Hangzhou, capitale cinese dell’e-commerce e sede del colosso Alibaba, è nato il primo cyber-tribunale, un tribunale che opera solo sul web.
Di cosa si occupa il cyber-tribunale
Partiamo dalle dispute. Il tribunale, come accennato, si occupa solo di questioni (civili e non penali) che hanno a che fare con la rete. Dispute sul commercio elettronico (si pensi alle cause civili intentate per informazioni false fornite sui prodotti), sulla cyber sicurezza, sulle transazioni di denaro, sui contratti che vengono stipulati online, sui consensi (nascosti) al trattamento dei dati personali, sulla violazione in web della proprietà intellettuale, sui prestiti ottenuti in rete, e su tanto altro.
Come funziona il tribunale on-line?
Tutto il processo, dichiarazioni e motivazioni comprese, si svolge sul web. In questo modo il Governo asiatico prova non solo ad accelerare i tempi, ma anche a risparmiare i costi. I giudici dovranno emettere un verdetto in soli 20 minuti.
Dopo la denuncia, un mediatore proverà a mettere pace tra le parti e tenterà di trovare una soluzione a quanto accaduto in via stragiudiziale nei quindici giorni successivi, attraverso videoconferenze o live streaming. Se le due parti non trovano un accordo allora spetterà alla corte di Hangzhou prendere una decisione sulla questione. Anche la corte opererà vie Internet.
Dunque, chi querela e chi è querelato dovranno aprire un account sul sito della corte, dove caricare i documenti, le memorie e le prove relative al caso, che passeranno poi al vaglio dei giudici cinesi. Sempre online accusa e difesa potranno trovare un archivio dei casi simili e analizzare i precedenti.
La letteratura in materia potrebbe aiutare chi si affaccia al mondo del web e dell’e-commerce ad adottare il comportamento più giusto in rete.
Una necessità: ad Hangzhou boom di cause per e-commerce
La nascita del cyber-tribunale non è solo una questione di innovazione, ma una necessità della Giustizia cinese. Proprio nella città di Hangzhou, sede del tribunale on-line, è stato registrato un boom di cause relative all’e-commerce. Per fare qualche numero: si è passati dalle 600 cause intentate nel 2013 alle oltre 10mila del 2016.
Non c’è da stupirsi sul fatto che tutte queste dispute siano di competenza del tribunale locale di Hangzhou: la città, infatti, è la sede delle principali aziende cinesi dello shopping online. Non solo: la metropoli è situata in una zona economica speciale a dazio zero (questo significa che gli imprenditori stranieri possono consegnare le merci senza pagare le spese di importazione).
Chi c’è dietro tutto questo?
In tutta questa storia c’è un “Ma”, in tutti i sensi. A supportare la macchina operatica della corte online è, infatti, il colosso cinese dell’e-commerce, Alibaba. Il gruppo guidato da Jack Ma ha fornito l’infrastruttura cloud su cui verranno archiviati i documenti delle dispute.
Non solo. Il suo sistema di pagamento, Alipay (di proprietà di Alibaba) serve a verificare l’identità di querelanti e ricorrenti. C’è da chiedersi come si esprimerà il giudice tutte le colte che l’accusato sarà Alibaba.
Tecnologici, ma poco liberi
La grande spinta al digitale, però, si scontra con la mancanza di libertà di parola.
Niente libera informazione in Cina, dove i cittadini non hanno accesso a servizi come Gmail, Facebook o Twitter o dove i quotidiani sono costretti a scrivere notizie “approvate dal Governo”. Il compito dei media nazionali Cinesi non è quello di informare, ma di “aiutare a forgiare le ideologie e le linee del partito” attraverso un “alto livello di uniformità con il partito”, come ha spiegato il presidente cinese, Xi Jinping.
Anche Google, fin dal suo sbarco nel 2009, ha avuto diversi problemi: nel 2009 Big G è stato vittima di un imponente attacco informatico (partito molto probabilmente dall’interno del Paese) e nel 2010 ha deciso di trasferire tutti i server a Hong Kong, aprendo la strada all’ascesa di Baidu.
Le restrizioni hanno avuto importanti ricadute anche su alcuni dei siti web asiatici più visitati, come Sina, Sohu e Netease, che sono stati chiusi nel corso del 2016 e che dovranno pagare importanti multe per avere “seriamente violato” le regole di internet sui contenuti pubblicati e avere causato “enormi effetti negativi”.
In realtà bastava utilizzare un Virtual Private Network, o VPN, per bypassare la muraglia. L’industria informatica ne è sempre stata a conoscenza, chiudendo un occhio. Nel 2015, però, molti dei servizi VPN utilizzati nel paese hanno smesso di funzionare, bloccati da nuovi filtri sempre più potenti.
Dal 2018, però, le cose cambiano. E China Unicom, China Mobile e China Telecom, i tre principali provider cinesi, dovranno collaborare con il governo per impedire che cittadini (e visitatori stranieri) adoperino i Virtual Private Network per sfuggire alle maglie del Grande Firewall. Le telco dovranno implementare la nuova direttiva entro il primo febbraio del 2018.
La censura si fa cosa davvero seria, se si pensa che la quasi totalità degli utenti cinesi utilizza un contratto di uno dei tre operatori.
Dal blocco, forse, si salveranno le multinazionali che operano nel paese, le quali tuttavia dovranno registrare presso il ministero l’uso di Reti Private Virtuali nei propri uffici, rischiando così di facilitare controlli e intercettazioni delle informazioni e dei dati scambiati con le proprie sedi all’estero.