In questo articolo voglio spiegare perché, a mio avviso, scegliere il software libero è prima di tutto un atto politico, e solo in seconda battuta una decisione tecnica o una ribellione per la libertà.
Più di vent’anni fa, quando ho iniziato ad avvicinarmi al software libero, ero pieno di entusiasmo, ma anche di presunzione. Pensavo che la scelta fosse solo tecnica, quasi scontata, e che chi non la condivideva fosse ignorante o chiuso mentalmente. Che errore! Col tempo, questa arroganza ha creato qualche attrito con amici, colleghi e persino con i miei figli. Ho capito che l’aspetto tecnico è solo una parte, e che alla base c’è un ragionamento molto più profondo.
La svolta è arrivata anni fa, leggendo il report di Mediobanca “I giganti del web”. Da quel documento è nata la mia presentazione “I padroni del web” e un articolo pubblicato su questo giornale. Ho realizzato che passare al software libero non è solo una questione di codici e programmi, ma un atto politico, inteso nel senso più ampio: una scelta strategica con implicazioni sociali, economiche e culturali. Permettetemi di portare qualche esempio per sostenere questa tesi, nella speranza di aprire una riflessione.
Prendiamo la mia vecchia banca, la Banca Popolare di Bergamo. A un certo punto, il responsabile IT decise di abbandonare i sistemi IBM per passare a Unix. Non fu solo una scelta tecnica, ma un atto politico coraggioso. Rompere il monopolio di un colosso come IBM non era semplice, eppure quella decisione ebbe conseguenze concrete: la scuola tecnica superiore Esperia, nel ramo informatico, creò classi dedicate ai sistemi Unix, e i giovani diplomati vennero assunti proprio dalla banca. Un atto politico, quindi, che ha generato occupazione e rafforzato il legame col territorio.
Un altro esempio viene dal settore pubblico. Nel 2013, il generale Camillo Sileo decise che l’esercito italiano avrebbe adottato LibreOffice, con il supporto di LibreItalia. Certo, il suo fu un ordine non negoziabile, ma anche un atto politico di grande impatto. Risultato? In quattro anni, lo Stato italiano ha risparmiato 28 milioni di euro, dimostrando che il software libero può essere una scelta di responsabilità economica e strategica.
Più di recente, la Danimarca ha deciso di passare a LibreOffice per la sua pubblica amministrazione. Inizialmente, l’obiettivo era più ambizioso: sostituire anche Windows con Linux. Tuttavia, per via del vendor lock-in – la difficoltà di uscire da un sistema chiuso come quello di Microsoft – il governo ha optato per il solo cambio della suite di ufficio. Anche questa è una scelta politica, legata alla sovranità digitale, alla sicurezza informatica e al risparmio economico.
Cosa accomuna questi casi? La responsabilità. Chi ha preso queste decisioni si è assunto il rischio di un possibile fallimento. Passare al software libero non è una scelta comoda: richiede coraggio, visione e consapevolezza. Molti, inclusi politici e manager, preferiscono evitarla per paura di sbagliare. Eppure, la sovranità digitale, la libertà e l’indipendenza dai “padroni del web” passano proprio attraverso questo atto politico.
Concludo con un invito: se vogliamo un futuro in cui la tecnologia sia al servizio delle persone e non dei grandi monopolisti, dobbiamo sostenere il software libero. Non è solo una questione di codici, ma di responsabilità verso la nostra società. È tempo che cittadini, aziende e governi facciano la loro parte.