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Che cosa cambierà per i rider?

L’azione giudiziaria non è in grado da sola di modificare i meccanismi di mercato così come non si possono creare per legge posti lavoro reali. Il punto è che la gestione della gig economy anche se si avvale di tecnologie avanzate è “anarchica” per sua natura. Il commento di Walter Galbusera, presidente della Fondazione Anna Kuliscioff

 

Il dettagliato comunicato stampa diffuso il 24 febbraio dalla Procura della Repubblica di Milano a seguito di una lunga indagine sulla verifica dello status lavorativo dei ciclo fattorini-riders e del rispetto della normativa antinfortunistica di questi lavoratori merita qualche riflessione.

Non certo per l’intimazione ai datori di lavoro di provvedere entro 90 giorni ad adempiere a tutti gli obblighi in materia di sicurezza applicabili alla categoria né per l’entità delle sanzioni irrogate alle multinazionali che le società potranno decidere di contestare attraverso uno specifico percorso processuale, quanto per la “riqualificazione” del rapporto di lavoro che non potrebbe essere (come per la maggioranza dei riders) un contratto di lavoro autonomo ma, trattandosi di lavoratori che svolgono, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro dovrebbe necessariamente configurarsi come lavoro subordinato.

D’altra parte l’indagine della Procura di Milano riguarda le modalità di svolgimento dei rapporti di lavoro dei riders in tutta Italia nel periodo precedente all’entrata in vigore sia del contratto collettivo stipulato da Assodelivery e UGL-Rider il 16 settembre dello scorso anno (che non è messo in discussione dall’indagine), sia della nuova disciplina legislativa contenuta nel “Decreto Di Maio” entrato in vigore nel novembre 2020.

La procura “suggerisce” un’interpretazione normativa che non si traduce automaticamente nell’obbligo di assumere tutti i riders (come alcuni importanti giornali hanno preannunciato, scambiando il comunicato stampa della Procura di Milano con una sentenza vera e propria) ma esclude sotto un profilo giuridico-morale che questa attività possa essere liberamente svolta come lavoro autonomo senza soggiacere a condizioni di sfruttamento inaccettabili e, in ultima analisi, illegali. Questo orientamento politico e culturale non è una novità e costituisce tuttora una sorte di “linea del Piave” innalzata dallo sforzo congiunto delle forze massimaliste e corporative della società italiana che considerano le politiche di flexsecurity alla stregua dell’Anticristo.

Le difficoltà ad un inquadramento di questa figura professionale nasce dal fatto che questo mondo è cresciuto all’ombra della gig economy, dove il lavoro spesso è costituito da prestazioni brevi e discontinue e che, pur necessitando di senso di responsabilità, capacità organizzative e adattamento a situazioni disagiate, non sempre richiedono professionalità specifiche. Sono gli eredi dei “lavoretti” che si tentò invano di regolamentare con il “voucher”, additato al pubblico ludibrio come strumento che avrebbe trasformato il mercato del lavoro in un mondo di precari sfruttati al confine con lo schiavismo. Il fatto è che bisogna intendersi su cosa si vuol fare per combattere il lavoro nero e anche quello “grigio”.

Un vecchio adagio milanese, fatto proprio dalla radicata cultura riformista lombarda, recita: “Piuttosto che niente è meglio piuttosto”. Se si vogliono i decreti di manzoniana memoria si sa dove si va a finire. Se invece si privilegia un percorso fatto di norme minime essenziali inderogabili da rispettare ma nello stesso tempo si trae dalla contrattazione tra le parti sociali la linfa vitale per l’emersione e la graduale regolarizzazione di tutte le forme di lavoro nero o irregolare, buoni risultati sono possibili.

L’azione giudiziaria non è in grado da sola di modificare i meccanismi di mercato così come non si possono creare per legge posti lavoro reali. Infatti nessuna persona dotata di normale equilibrio psichico potrebbe di attribuire alla magistratura o alle forze dell’ordine la responsabilità delle anomalie del mercato del lavoro nel sud. Il punto è che la gestione della gig economy, anche se si avvale di tecnologie avanzate,  è “anarchica” per sua natura.

L’arma vincente è quella della contrattazione che è fatta di compromessi e mediazioni, ma è l’unica a garantire la continuità e il graduale consolidamento di ogni situazione sulla base di elementi reali. Proprio le organizzazioni dei riders hanno sviluppato, sia pur in forme diverse e anche conflittuali tra loro (non dimentichiamo che per la Costituzione la contrattazione è libera) iniziative sindacali che hanno ottenuti risultati importanti e che hanno prodotto esperienze contrattuali significative sia per il lavoro autonomo che per quello subordinato. Può darsi che qualcuno esulti per questa iniziativa della procura di Milano ma, se dovesse prevalere la reductio ad unum delle modalità contrattuali di questo settore ci sarà un prezzo da pagare (che non è l’ammenda alle multinazionali) ma il rischio di cancellare con un tratto di penna un certo numero di posti di lavoro (autonomo o subordinato) che oggi esistono.

Tra l’altro, se una delle maggiori criticità italiane richiamate esplicitamente dalla Ue è quella del funzionamento della giustizia civile siamo certi che questa oggettiva incertezza della natura di un rapporto di lavoro lasciato alla multiforme giurisprudenza contribuirà a rendere più credibile e accogliente il nostro paese agli investitori stranieri?

D’altra parte, senza enfatizzare gli ulteriori problemi che verrebbero creati alla ristorazione in un momento di perdurante emergenza sanitaria, se i riders potessero lavorare solo come lavoratori subordinati il loro numero non potrebbe che diminuire. Quando alcune sentenze della magistratura hanno sostituito la contrattazione tra le parti (come per Unidal, call centers, Ilva di Taranto) le conseguenze non sono state positive e abbiamo assistito al tentativo di rincorrere gli imprenditori che avevano gettato la spugna.

Del resto è francamente insostenibile, oltre che incomprensibile, negare ad un rider il diritto a svolgere un’attività autonoma. Perché non trattare i ciclo fattorini (alcuni dei quali si sono peraltro già motorizzati), come i tassisti ricorrendo alla determinazione delle tariffe in funzione del tempo e delle distanze percorse? E non sarebbe altrettanto ragionevole promuovere tra i riders cooperative di soci dipendenti che sarebbero in grado di tutelare meglio i propri associati?

L’alto profilo dei magistrati impegnati su questa materia attribuisce di per sé un valore politico a questa vicenda che non riguarda solo la libertà di contrattazione delle parti sociali, ma apre un fronte imprevisto con il Parlamento ed il Governo che pure ha tra i suoi obiettivi, nell’ambito della EU Next Generation, anche il tema assai impegnativo ma difficilmente rinviabile della riforma della giustizia, a partire da quella civile, cui appartiene il diritto del lavoro.

Perché non cogliere l’occasione di cedere un pezzo di sovranità all’Ue per costruire una legislazione comune europea in materia di giustizia del lavoro che dia una ragionevole certezza ai lavoratori e alle imprese?

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