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Istruzione

Pnrr, cosa non va su Istruzione e ricerca

Il post di Alessandra Servidori

 

Il 6 dicembre è stato presentato in bozza al Consiglio dei Ministri il Piano di ripresa e resilienza, che sappiamo ha scatenato la diatriba nella maggioranza e nella minoranza, diatriba peraltro ancora in corso. 125 pagine in cui si specificherebbe come l’Italia intende spendere i 209 miliardi di euro che saranno messi a disposizione dal Next Generation-EU (NG-EU) nei prossimi 6 anni (2021-2027).

Il Piano deve essere approvato dal Consiglio dei ministri, poi presentato in Parlamento e poi formalmente in Europa, dove approderà entro la fine di aprile 2021. Sarà la Commissione europea a valutare i singoli progetti e ad approvarli o meno.

Il Piano è articolato in sei “missioni”, ciascuna suddivisa al proprio interno e prevede finanziamenti per ciascuna missione: Digitalizzazione, 49 miliardi; Transizione ecologica, 74 miliardi; Mobilità sostenibile, 28 miliardi; Istruzione e ricerca, 19 miliardi; Parità di genere e coesione sociale e territoriale, 17 miliardi; Sanità, 9 miliardi. Sappiamo prima di tutto che il Piano richiede l’approvazione di numerose riforme legislative per rendere efficace l’uso delle risorse.

In questa riflessione dedico particolare attenzione all’istruzione, formazione, ricerca per le quali sono previste linee di azione ma noi sappiamo bene che il problema vero oggi è la distanza dal lavoro poiché molti studenti e studentesse escono dalla scuola con una scarsa conoscenza dell’ortografia e della sintassi, e senza un reale interesse per il sapere. Senza mai leggere un libro e tantomeno un giornale.

Oggi poi è parere assai diffuso che la scuola sia un luogo di socializzazione ma non di apprendimenti spendibili soprattutto sul luogo di lavoro. Non c’è alcun dubbio che la politica ha dimostrato di disinteressarsi della scuola non solo togliendo risorse ma anche evitando quei cambiamenti che l’avrebbero resa un luogo dove apprendere cose utili al lavoro. E in questo periodo di confinamento quello che maggiormente viene denunciato dagli studenti è l’impossibilità di stare in gruppo e in realtà povere di metodologie di avanguardia (purtroppo ancora tante) diventa prevalente l’aspetto dello stare insieme. Abbiamo invece realtà locali dove l’impegno imprenditoriali e universitarie hanno sostenuto strumenti che hanno permesso di riformare la scuola nella comunità senza attendere orientamenti e risorse nazionali. Tessendo rapporti anche poi progressivamente a livello regionale ed europeo con scambi eccellenti tra scuola e lavoro tra teoria e pratica, offrendo i fabbisogni del sistema sociale e produttivo rispondendo insieme scuola, impresa, istituzione al bisogno di competenze e modificando i curricula. Ma sappiamo bene che la realtà italiana è ancora molto povera di queste buone pratiche.

Argomentazioni barocche e ben poco convincenti accompagnano la bozza di proposta nella missione Istruzione e Ricerca, che è particolarmente analizzata in questo commento, con particolare riguardo alla scuola, perché si “concretizza” sempre, secondo la bozza, in 2 linee di azione o componenti: 1) Potenziamento della didattica e diritto allo studio 2) Dalla ricerca all’impresa.

Queste due linee di azione saranno accompagnate da una serie di riforme improntate a linee guida che non hanno una visione temporale e soprattutto fattuale. Riforma del sistema di selezione del personale scolastico, integrato con periodi di formazione e di prova; Introduzione di moduli di formazione continua di dirigenti, docenti e personale ATA (life-long learning), con sistema di crediti e obbligatorietà della frequenza. Potenziamento dell’offerta formativa, in particolare in discipline abilitanti 4.0, e correlate alla vocazione produttiva del territorio di riferimento. E poi ancora introduzione di moduli di orientamento nelle scuole secondarie di secondo grado, innovazione dell’istruzione universitaria (più altre voci di riforma per l’università).

La prima linea di azione, “Potenziamento della didattica e diritto allo studio”, ha come obiettivo generale quello di migliorare i risultati e i rendimenti dei sistemi scolastico e universitario, in particolare si prefigge di: ridurre il tasso di abbandono scolastico (14,5% nel 2018 rispetto alla media UE del 10,6%), rafforzare le competenze digitali, linguistiche e STEM del personale scolastico, anche ampliando i curricula degli studenti, ridurre le disparità territoriali e di genere, aumentare la percentuale di popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni in possesso di un titolo di studio di livello terziario (ora 28% rispetto al 44% di media nei paesi dell’Ocse), con potenziamento di ricerca e istruzione professionalizzante terziaria, e rilancio degli ITS.

È tristemente evidente che ancora una volta propongono un elenco random dei mali che affliggono la scuola italiana. Manca una rigorosa analisi delle cause che determinano questi fallimenti e una conseguente coerente elaborazione di condizioni alternative che permettano alle proposte e alle idee di essere implementate. Mancano dunque visione e priorità.

Si ripropone ad esempio la riforma del sistema di selezione del personale scolastico, in particolare dei docenti, prescindendo dalle ragioni dei successivi fallimenti accumulati in questi anni, e senza affrontare la questione nodale della decentralizzazione del reclutamento. Il male maggiore è evidenziato anche dalla mancanza di creazione di una leadership scolastica intermedia, ipotizzata fin dal 1997 con il varo dell’autonomia (Legge 59/97 art. 21 comma16) e oggi dimostratasi più che mai indispensabile. Infine non ci sono solo lacune, ma anche impostazioni sbagliate. Come la proposta di “ampliare il curricolo”. Per innovare e adeguare i curricoli occorre “ridisegnarli” non “procedere per aggiunte”. Siamo in presenza di curricoli bulimici e frammentati che sono una delle cause della dispersione.

Un recentissimo lavoro dell’Ocse, Curriculum 2030, reso pubblico il 25 novembre 2020, esamina il Curriculum overload (sovraccarico del curricolo) e un nuovo Curriculum Design, con lo scopo di superare curricoli pletorici, renderli equi, flessibili e autonomi, riprogettarli con un approccio ecosistemico e ispirato a valori.

Il Piano prevede la bozza sarà attuato nei prossimi sei anni, un periodo nel quale, con ogni probabilità, l’Italia cambierà 3 o 4 governi con orientamento politico diverso. Per questo, è necessario che questo Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) trovi il massimo consenso non solo tra le forze politiche, ma anche, nella società civile e tra le forze sociali. Sarebbe utile per esempio ascoltare e raccogliere suggerimenti intelligenti come quelle delle associazioni dei dirigenti scolastici che indicano 3 priorità: un nuovo stato giuridico del personale docente e dirigente; il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale, secondaria e terziaria, con particolare riferimento al Sud; scuole aperte alla comunità, nelle periferie più brutte.

La questione della professionalizzazione della docenza e della dirigenza, richiede che si intervenga su più piani, non solo su quello contrattuale, significa innanzitutto un nuovo Statuto Giuridico per docenti e dirigenti e per i docenti. Occorre ricollocare in un quadro normativo unitario tutte le questioni che vanno dalla formazione iniziale al reclutamento, dalla formazione in servizio alla valutazione, da una nuova impostazione di autonomia professionale allo sviluppo e differenziazione di carriera, ecc.. In buona sostanza un quadro nazionale che abbia nuovi punti di riferimento nelle scuole autonome, nelle Regioni, nell’Unione europea, che superi antichi miti e collegialità formalistiche per costruire l’insegnamento come impresa collettiva.

Uno degli aspetti determinanti è la costruzione di una leadership intermedia, definendone e diverse tipologie, gli standard professionali, la formazione e le modalità di accesso. Va ridefinito uno statuto della dirigenza scolastica che riconsegni ai dirigenti la funzione prioritaria di leadership educativa in una visione di leadership sostenibile e di sistema. E poi ancora sappiamo bene che l’istruzione tecnica e professionale nel nostro Paese ha progressivamente perso la propria carica propulsiva, fatta di legami proficui con le imprese e il mondo del lavoro, di apprendimento laboratoriale, di un’orgogliosa cultura dell’operatività, del progetto e del lavoro. Occorre cambiare passo e visione delle loro finalità con un rilancio con lo sguardo al mondo del 5G, della green economia, dell’economia circolare e dello sviluppo sostenibile.

Una formazione che punta a competenze di imprenditorialità e a competenze di leadership. Impariamo dalla Germania una volta per tutte la ridefinizione profonda dei curricoli con il superamento della bulimia delle discipline, con ampi spazi all’attività laboratoriale e all’alternanza scuola lavoro, inserita nel piano di studi con propri tempi che non interferiscono con quelli delle altre discipline. Istituti che sanno instaurare un legame profondo e di scambio con il proprio territorio e le imprese, e che hanno come confine il mondo. Per gli istituti professionali si tratta di superare i danni prodotti dalla legge 40/2007 che li ha di fatto soppressi, omologandoli agli Istituti Tecnici, con la perdita della possibilità di impartire autonomamente le qualifiche. Molti tentativi si sono susseguiti per ridare identità agli Istituti Professionali, si pensi al recente Decreto Legislativo 61 del 13 aprile 2017 – Revisione dei percorsi dell’istruzione professionale – ma sono rimaste soluzioni di ripiego che non intaccano nel profondo la situazione ibrida di tali istituti.

Progetti che guardano soprattutto il Sud, dove chi va alla scuola secondaria superiore continua a preferire di gran lunga i percorsi liceali rispetto a quelli tecnici e professionali, è dove la formazione professionale è praticamente assente. Il modello che si può creare  prepara sia al lavoro che all’Università, ma deve avere anche un particolare legame con gli Istituti Tecnici Superiori, che tuttavia continuano a non decollare e rimangono i grandi assenti del sistema d’istruzione in Italia.

Occorrono istituti scolastici che godano di un’autonomia scolastica speciale come in Germania e in Gran Bretagna. Istituti scolastici ad elevatissima autonomia, per rilanciare l’istruzione tecnica, soprattutto nelle zone degradate, come propone l’Adi (Associazione Dirigenti e docenti Italiani).

La fascia di età 0-14 anni, comprendente il sistema integrato 0-6 e il primo ciclo di istruzione, è particolarmente delicato. Gli Istituti scolastici situati in periferie degradate, dove non c’è capitale sociale e dove i vincoli sono a volte delittuosi ,meritano particolare attenzione. Istituti che possono avere un profondo legame con la propria comunità in un’ottica rivolta al mondo e al suo sviluppo sostenibile.

Abbiamo bisogno di scuole pulite e belle dal punto di vista architettonico, gestite dai migliori insegnanti e dirigenti, rigorose e impegnate. Scuole dove sono presenti tutti i servizi necessari, dall’assistenza medica a quella sociale, dove è garantita la mensa e la biblioteca, dove il digitale è familiare e dove la comunità è fondamentale come riferimento. Sappiamo bene che questi cambiamenti sono faticosi ma assolutamente necessari poiché i percorsi formativi e i curricula dovranno essere paralleli e coordinati con la straordinaria evoluzione in corso delle professioni e dei ruoli lavorativi che ci vengono segnalati dagli ambienti innovativi. Sarà necessaria una classe dirigente che assicuri una governance efficace per cogliere i frutti e disseminarli. Questa è la sfida.

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