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Vi spiego il vincolo cinese dell’iPhone di Apple

Il "miracolo" delle supply chain del XXI secolo, il super-prodotto iPhone, è frutto dell'interdipendenza ma non è un sistema statico: la spinta della politica ha un ruolo. L'analisi di Alessandro Aresu

 

Il grafico del WSJ sui costi dell’iPhone con i nuovi dazi mi dà l’occasione di riprendere l’importanza di questo oggetto nei miei tre libri sul capitalismo politico, per comprendere l’intreccio tra economia, tecnologia, sicurezza nazionale.

Nel mio libro del 2020, scritto nel 2018 e 2019, analizzavo i momenti di Foxconn (azienda cruciale del mondo digitale, enormemente sottovalutata) verso l’India e il tentativo infruttuoso di Apple di accontentare Trump sulla manifattura.

La tendenza qui è che il “miracolo” delle supply chain del XXI secolo, il super-prodotto iPhone, è frutto dell’interdipendenza ma non è un sistema statico. Riceve necessariamente alcune spinte politiche, legate al potere dei vari mercati e alle catene del valore.

L’iPhone è poi grande protagonista del mio libro “Il dominio del XXI secolo”, con la scena della cena a casa di Morris Chang (presente anche Terry Gou di Foxconn) in cui TSMC accetta la scommessa dell’iPhone e consolida la sua scalata.

Nella “macchina” di Apple, costruita dallo stesso Cook e da Jeff Williams, vedo così svilupparsi un “triangolo impossibile”, che avvolge insieme la relazione tra Stati Uniti, Repubblica Popolare Cinese, Taiwan.

Finché è solo l’interesse economico a guidare la relazione, nessun problema. Ma siamo nell’epoca del capitalismo politico, quindi non c’è solo l’economia, c’è anche la sicurezza nazionale. E non c’è mai solo l’economia lo stesso! La stessa storia di Apple lo dimostra.

La “macchina” di Apple ha la Cina come polo fondamentale, perciò il suo super-prodotto diviene sempre più vincolato non solo alla forza lavoro, ma anche e soprattutto alla filiera cinese. In questo senso, esiste uno specifico interesse cinese: scalare la filiera Apple.

La documentata azione cinese è far sì che il contenuto cinese dell’iPhone divenga sempre più importante e indispensabile, mentre allo stesso tempo si sviluppano i grandi attori cinesi negli smartphone.

In questo modo, le imprese cinesi avranno sempre più dal successo dell’iPhone, che è vincolato alla Cina, mentre allo stesso tempo il consumatore cinese potrà comprare più smartphone cinesi, che peraltro migliorano sempre più la loro qualità.

Per questo, visto che l’ascesa tecnologica cinese è la minaccia al primato statunitense, alla fine de “Il dominio del XXI secolo” immagino – per divertirmi, ma non solo – il discorso di Jobs a Stanford interrotto dagli apparati di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Ora, una riduzione “moderata” del processo descritto, in cui si assume comunque come strutturale l’uscita statunitense dalla manifattura, è la diversificazione in altre geografie asiatiche, in particolare Vietnam e India. Processo in corso, per Foxconn e Apple.

Allo stesso tempo, l’ecosistema cinese resiste sempre. Ho raccontato in “Geopolitica dell’intelligenza artificiale” questa tendenza, attraverso TSMC e Huawei. TSMC, dentro il “triangolo impossibile”, prima ragiona solo economicamente. Poi dal 2019 non può più farlo.

Col caso Huawei, perde il suo secondo cliente. I clienti cinesi rimangono, in un modo o nell’altro, ma ci sono maggiore dipendenza da quelli USA e maggiori investimenti lì. Ma l’innovazione cinese e la scalata all’ecosistema continua, in vari ambiti della filiera.

La macchina non si ferma. Tim Cook continua ad andare a Pechino, Huawei torna in campo e riorganizza la filiera, Xiaomi nel mentre fa la sua auto, mentre Apple chiude quel tentativo dopo aver perso un sacco di soldi.

Questo potere asiatico di ecosistema, di filiera e di talento, che è la più grande storia del nostro mondo, continua a stare sulla scena, fino al tentativo attuale di fare “whatever it takes” per abbatterlo, di pagare e far pagare qualunque costo.

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