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L’Ue non sarà il “terzo polo” dell’Intelligenza artificiale fra Usa e Cina. Ecco perché. L’analisi di Aresu

La competizione tecnologica e geopolitica fra Usa e Cina. Il ruolo dell'India. Le prospettive dell'Ue e il rapporto Draghi. Conversazione con Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes e autore di "Geopolitica dell'intelligenza artificiale" (Feltrinelli)

La corsa all’intelligenza artificiale aumenterà il distacco tecnologico tra gli Stati Uniti e l’Europa, oppure il Vecchio continente ha qualche carta da giocare? L’AI Act e i vari regolamenti potranno essere di qualche aiuto? Startmag lo ha chiesto ad Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes e autore di Geopolitica dell’intelligenza artificiale, uscito per Feltrinelli il 22 ottobre.

La sua risposta è molto netta: “Ancora? Stiamo ancora a dirci cose come ‘l’Europa può essere la terza gamba tra Stati Uniti e Cina’, ‘ci vuole un G3 e non un G2’, ‘siamo una potenza normativa’ e cose del genere? Le ragioni e le prospettive di questo divario, in modo sistematico, dal mio punto di vista le ho già chiarite nel libro del 2020 sul capitalismo politico, dove ci sono decine di pagine su questo tema, in cui tratto tutti i temi che caratterizzano il dibattito attuale”.

Ce ne riassuma qualcuna.

Come effetto della competizione tra Stati Uniti e Cina basata sulla sicurezza nazionale, gli europei si sarebbero posti il tema della sovranità tecnologica e avrebbero rafforzato i loro strumenti di protezione rispetto alle acquisizioni cinesi di proprietà intellettuale; gli europei avrebbero messo in questione la struttura dell’antitrust, perché si sarebbero confrontati con un problema di scala nella competizione industriale, oltre che con elementi di capitalismo politico, e quindi avrebbero “sognato Airbus” per altri settori, senza però riuscire a realizzarlo per via delle divisioni interne e della loro debolezza nei capitali.

Nel libro del 2022, mi sono invece concentrato sulla questione dell’automotive, su cui esistevano già lavori e testimonianze importanti (penso a una memorabile intervista di Bombassei a Paolo Bricco del 2019, solo per fare un esempio) ma che io ho affrontato attraverso un’analisi complessiva della filiera cinese e delle sue prospettive: una volta che studi CATL e BYD e comprendi il contesto, è facile trarre le conseguenze sullo stato dell’industria europea. Conseguenze che peraltro riguardano anche l’elettronica.

Nel libro del 2024, ripeto per l’ennesima volta gli argomenti che ho avanzato, e che sono stati sempre confermati, e ricordo vari aspetti: in sintesi, in primo luogo, la teoria del cosiddetto “effetto Bruxelles” è sbagliata dal punto di vista logico, perché il mercato europeo, visto che l’Europa cresce meno degli altri, diminuisce per importanza, quindi ci dobbiamo attendere logicamente, come sta avvenendo e avverrà senz’altro di più in futuro, che attori extra-europei che si vedono regolati dagli europei scommettano meno nel mercato europeo puntando su altri mercati; in secondo luogo, io sostengo – articolando in questo senso il discorso del rapporto tra tecnica e politica come professione di Weber – che il regolatore europeo, un po’ per le caratteristiche di enorme complessità di alcune filiere, un po’ perché è proprio costruito con caratteristiche e competenze inadeguate per comprendere il nostro mondo, spesso non conosca ciò di cui parla; in terzo luogo, è falso che noi possiamo occuparci in Europa in parallelo di “regole”, attrazione di talenti, capitali, perché così si tratta di fare troppo tutto insieme, e occorre concentrarsi su ciò che è più importante, costruendo una scala di priorità.

Mi pare di capire che non ci sia alcuna speranza per l’Unione europea di diventare una protagonista dell’intelligenza artificiale…

Il discorso che l’Ue possa essere un terzo “polo” rispetto a Stati Uniti e Cina non ha proprio nessun senso dal punto di vista analitico, è esempio di miseria intellettuale quando viene avanzato da chi non conosce la filiera imprenditoriale e industriale di cui abbiamo parlato, e da cui dipendono i rapporti di forza. Infine, penso anche che questo discorso sia proprio razzista nei confronti di diversi attori asiatici che hanno guadagnato sul campo un ruolo solo in parte dettato dalla demografia, attraverso l’istruzione della loro popolazione, attraverso la loro struttura industriale e la loro ambizione. Attraverso la produzione culturale: come ho ricordato moltissime volte, gli articoli scritti negli ultimi otto anni da due giornaliste taiwanesi di Nikkei Asia, Cheng Ting-Fang e Lauly Li, sono di gran lunga i migliori del mondo per comprendere le filiere tecnologiche. Dovrebbero avere già vinto decine e decine di premi, e ovviamente se fossero negli Stati Uniti ne avrebbero vinto di più.

Quando noi diciamo che l’Ue è un supposto “terzo” tra Stati Uniti e Cina, gli indiani ci ridono già in faccia da tempo. Ho ascoltato per esempio di recente tutte le conferenze tenute in Europa da Samir Saran, uno studioso indiano che portava la sua prospettiva nei vari centri di ricerca e think tank, dalla Finlandia alla Germania, con estrema chiarezza e anche in modo puntuto, quasi sfacciato: lui aveva sempre ragione, i suoi interlocutori balbettavano e parlavano solo per frasi fatte, sempre accondiscendenti verso quell’indiano che si “permetteva” di dare lezioni, peraltro sulla base di solidi argomenti perché come vi ho detto aveva sempre ragione lui. Saranno sempre più i Samir Saran in futuro.

Tutto quello che ho descritto non potrà mai cambiare la grande storia intellettuale europea. Basterebbe citare solo Leibniz, un pensatore davvero universale dell’Europa, molto presente in questo libro, o le intuizioni di Leopardi. Ma togliamoci dalla testa ogni pretesa di “primati” o “diritti acquisiti” perché sono esistite queste grandi personalità secoli fa da queste parti. Non possiamo chiaramente risolvere i problemi dell’auto tedesca o far ragionare con un minimo di buon senso le persone come il ministro Lindner solo perché da quelle parti secoli fa viveva Leibniz.

Cos’ha l’America che a noi europei “manca”?

Premettiamo ovviamente che gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea non sono entità comparabili, è chiaro a tutti che è come paragonare mele e arance. Aggiungo che Mario Draghi nel suo rapporto mostra questo divario con una ricchezza di dati e di esempi che non ha eguali in nessun altro lavoro disponibile; quindi, basta leggere il rapporto di Draghi, o anche caricarlo nella versione a pagamento di ChatGPT e fare le domande giuste, per avere molte risposte.

Per sintetizzare, ricordiamo anzitutto che gli Stati Uniti hanno un vantaggio incomparabile in termini di capitali. Se non si mobilitano almeno un po’ più di capitali, in Europa non si può fare comunque quasi nulla.

Inoltre – ed è un punto centrale – c’è un ritardo sui talenti, sulla capacità di attirare e trattenere il capitale umano, perché come può essere dimostrato sia nei grandi numeri che nelle storie delle persone, e le dinamiche tecnologiche dipendono in modo essenziale da questo fattore.

Gli europei inoltre non riescono a valorizzare le loro nicchie industriali. Non le conoscono nemmeno. Temi di rilevanza enorme nel dibattito pubblico, come appunto lo sviluppo di queste aziende e il loro ecosistema, sono considerati secondari rispetto all’ennesimo fatto di cronaca oppure alle vicende quotidiane della politica internazionale: invece sono questi temi a essere strutturali. O meglio, da essi dipende il nostro benessere. Ci sono interi ambiti, in particolare la chimica e i gas industriali, in cui gli europei hanno grandi capacità ma, in genere, non ce ne importa assolutamente nulla. Stiamo parlando di aziende, di tecniche, di procedimenti fondamentali per la storia europea e la storia del capitalismo, soprattutto nello sviluppo ottocentesco e di inizio Novecento della Germania e della Francia! Le questioni, le figure di cui scriveva un autore come Sombart, che ha inventato il termine “capitalismo”.

Ora parliamo solo di transizioni, compliance, come se queste aziende non esistessero, oppure la verità è che disprezziamo queste capacità e quindi incentiviamo le aziende a operare in Cina o in altri Paesi asiatici. Dobbiamo quindi superare questa ipocrisia parlando con chiarezza. Vogliamo che ci siano i protagonisti della chimica e dei gas industriali in Europa, senza cui non esiste né la nostra automobile né il nostro smartphone, oppure non vogliamo nemmeno questo, e pensiamo di vivere aprendo gelaterie? Io non sono ipocrita, quindi vorrei continuare a mangiare gli eccellenti gelati italiani grazie al benessere generato dalle aziende chimiche e dalle altre capacità manifatturiere europee. Disprezziamo queste capacità? Ce ne vogliamo liberare? Benissimo, è una scelta legittima che ha alcune conseguenze, come quella di vivere nel sottosviluppo e di non poter nemmeno mangiare più gelati.

Jensen Huang di NVIDIA ha detto che è “impossibile” vincere la corsa all’intelligenza artificiale senza l’energia nucleare. Negli Stati Uniti le grandi aziende tecnologiche hanno stretto numerosi accordi di fornitura di elettricità da fonte atomica, stimolando anche lo sviluppo di reattori innovativi. La Commissione europea dovrebbe rivedere la sua politica energetico-climatica per incoraggiare la costruzione di nuove centrali nucleari?

Con tutta l’energia possibile è un vecchio titolo di Leonardo Maugeri di alcuni anni fa. Siccome la dimensione fisica della tecnologia, l’impronta fisica della tecnologia è essenziale, e poiché non esiste nessuna “nuvola digitale” priva di aspetti materiali, allora per l’espansione dell’economia dei data center acquista grande rilievo la questione energetica. Peraltro, nel libro ricordo che l’efficienza energetica è un tema a lungo discusso anche strumentalmente nell’elettronica, perfino nella controversia tra CPU e GPU che segna l’emergere di NVIDIA; quindi, attraverso NVIDIA e attraverso la conoscenza di questo fondamentale attore del nostro tempo si può comprendere meglio anche questo tema.

L’importanza di capire questi temi sul piano storico è evidente anche da un altro esempio che ricordo nel libro, e cioè il fatto che Warren Buffett circa dieci anni fa abbia capito come i data center di Google sarebbero stati clienti significativi delle sue società energetiche in Iowa. Adesso il tema dell’infrastrutturazione energetica riguarda molto anche il dibattito sulle diverse capacità di Stati Uniti e Cina, e quindi le possibilità reali per i due contendenti di costruire e gestire in modo efficace dei cluster di data center. Dobbiamo quindi leggere in questo senso gli annunci sul nucleare delle varie grandi aziende tecnologiche, che alimentano l’economia dei data center attraverso i loro investimenti. Ormai si tratta di moltissimi annunci, appunto secondo il paradigma “con tutta l’energia possibile”.

Il consumo dei data center è eccessivo? Le reti sapranno sostenere questa crescita? Ancora una volta, la conoscenza del funzionamento delle filiere e la loro organizzazione, all’interno del paradigma della dimensione materiale della tecnologia e del rifiuto della sua de-materializzazione, è presupposto necessario per porci queste domande. E queste domande sono importanti e serie.

Peraltro, oltre alle persone che dicono “bombardiamo i data center perché arriva l’apocalisse”, e lo dicono in genere perché vogliono prendere le donazioni e i soldi di alcuni miliardari, possono esserci delle comunità che si organizzano e dicono “no, prima del data center vengo io col mio villaggio” e fanno valere questa posizione, in un modo o nell’altro. Il mondo materiale ha anche questa possibilità e queste caratteristiche, nel rapporto tra capitale e lavoro: il fatto che un gruppo di scienziati possa “ribellarsi” al sistema, prendere una strada radicalmente diversa attraverso un laboratorio, una volta che comprendiamo la struttura del capitalismo con cui abbiamo a che fare, non è proprio possibile, e nel mio libro spiego chiaramente come si modificano in questo senso i rapporti di forza; invece, una rivolta del lavoro è improbabile ma è comunque possibile, se si vuole rovesciare il sistema o dare ad esso delle scosse. Il lavoro è stato espulso dal nostro orizzonte ma, in un mondo di fabbriche di fabbriche che non sono nell’attuale contesto di certo eliminabili per “fare” intelligenza artificiale, il rilievo del lavoro può ritornare. E porre in questi termini in modo nuovo il tema del potere.

(seconda e ultima parte della conversazione con Aresu, la prima si può leggere qui)

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