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Cookie Wall

Il futuro (della data protection) è senza consenso: i nuovi cookie wall dei giornali online

Alcune testate giornalistiche on-line stanno proponendo l’accesso ai loro contenuti (solitamente paywall) subordinato al consenso a trattamenti di profilazione. L'approfondimento di Maria Vittoria La Rosa (Avvocato) e Marco Scialdone (Docente di diritto e gestione dei contenuti e servizi digitali, Università Europea di Roma) sui cookie wall

 

Nell’operazione militare vittoriosa prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia. Nell’operazione militare destinata alla sconfitta prima si dà battaglia, poi si cerca la vittoria”: questo diceva Su Tzu nella sua Arte della Guerra. Non sappiamo quanto questa massima sia apprezzata oggi nel mondo degli studiosi e degli operatori della data protection: il dipanarsi degli ultimi eventi parrebbe tuttavia suggerire una scarsa fortuna, nella fase contemporanea, del fondamentale trattato di strategia militare cinese.

Per riflettere sul tema è utile l’esempio delle recenti iniziative di alcuni gruppi editoriali in materia di profilazione degli utenti, da settimane al centro del dibattito tra studiosi ed operatori della privacy e di recente oggetto di un’iniziativa del Garante della Privacy, volta a verificare la legittimità di queste pratiche. Nella sostanza, ciò che è accaduto è che sui siti di alcune testate online è comparso un avviso a coloro i quali vi accedano secondo il quale, per visualizzare i contenuti, è necessario o acquistare un abbonamento, oppure prestare il proprio consenso all’installazione di cookie ed altri strumenti di tracciamento dei dati personali. In sostanza, gli editori hanno iniziato esplicitamente a chiedere il pagamento di un “prezzo” per l’accesso al proprio prodotto, costituito o da una somma di denaro, o dall’autorizzazione al trattamento di taluni dati. Di qui lo scandalo, che nasce ancora inevitabilmente quando il concetto di prezzo venga accostato a quello di dato (personale o meno, di solito questa distinzione influenza scarsamente il dibattito).

Se, come detto, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali italiana ha ritenuto di aprire un’istruttoria al riguardo (di cui è doveroso attendere gli esiti), c’è da dire che una fattispecie analoga ha già superato indenne lo scrutinio dell’omologa Autorità austriaca nel 2019 allorquando si è affermato che il c.d. “pay or okay” è in linea di principio lecito e il pagamento per l’accesso a un sito web può essere un’alternativa al consenso. Tale decisione, peraltro, appare suffragata dal considerando 24 della Direttiva (UE) 2019/770 secondo cui “la fornitura di contenuti digitali o di servizi digitali spesso prevede che, quando non paga un prezzo, il consumatore fornisca dati personali all’operatore economico. Tali modelli commerciali sono utilizzati in diverse forme in una parte considerevole del mercato” .

Del resto, è davvero sorprendente che un soggetto imprenditoriale (quale sono gli editori) pretenda una remunerazione per l’accesso al proprio prodotto? O non sarebbe piuttosto bizzarro il contrario? Ed è ancora realistico, nel contesto digitale, pensare che questa remunerazione non passi da una valorizzazione economica dei dati?

Qualche decennio di frequentazione del web e dei suoi servizi (formalmente) gratuiti ci ha forse fatto perdere familiarità con un concetto che tuttavia resta fondamentale in un contesto di economia di mercato, quale quello in cui viviamo: l’organizzazione dei mezzi finalizzata alla produzione di beni o servizi trae la sua ragion d’essere dalla volontà dell’imprenditore di ricavare un profitto. Nessun profitto, nessun bene (o servizio). È ovvio che questa attività debba necessariamente inserirsi in una cornice di regole (anche di rango costituzionale), ma non è pensabile che questo concetto di base venga ignorato. L’atteggiamento che sfoci in una battaglia lanciata senza tenere a mente questo dato allontana dal raggiungimento del proprio fine (per quanto nobile, come quello della tutela dei dati personali), proprio come ci insegna l’antico maestro cinese. Nemmeno la prospettiva consumeristica ne beneficia.

Tornando all’esempio specifico dell’informazione, la crisi in cui versa il settore è nota. Si può legittimamente discutere delle modalità con le quali i lettori siano o meno costretti a subire una profilazione di fatto, ma non è destinato ad alcun risultato concreto un dibattito che ignori la necessità del settore di trovare una propria sostenibilità economica: ed è probabile che questa sostenibilità non possa essere garantita solo dagli abbonamenti ma debba necessariamente passare, in un contesto di bassissima propensione alla spesa dei lettori, dalla valorizzazione economica dei dati. Del resto, la quantità di studi economici prodotti negli ultimi anni in Europa, Australia, Stati Uniti ed altrove sul ruolo economico che i dati (personali e non) rivestono nei mercati digitali è oramai tale da rendere superflua ogni considerazione sul punto: si può piuttosto discutere di come ciò debba essere messo in pratica.

Il tema, quindi, potrebbe forse essere posto in questi termini: in un contesto economico quale quello digitale, nel quale il dato è già alla base delle dinamiche economiche, ha ancora senso dibattere sul se un dato possa essere considerato un prezzo? Non potrebbe essere più sensato considerare questo – piuttosto – come l’assunto di base dal quale partire al fine di individuare le modalità più corrette di concretizzazione di un fenomeno che tuttavia è qui per restare?

La discussione concentrata esclusivamente sul consenso come base giuridica privilegiata (e, dunque, a cascata, il doversi interrogare se esso possa dirsi effettivamente libero in un siffatto contesto) rischia di rivelarsi sterile, quando invece occorrerebbe ragionare sulle modalità con cui garantire il corretto bilanciamento tra la libertà di impresa ed una tutela – effettiva – dei diritti degli altri attori del mercato, a partire dai consumatori.

Ciò potrebbe passare, paradossalmente, proprio dal superamento del consenso a favore di altre basi giuridiche, quali il contratto o il legittimo interesse, che meglio sono in grado di rispondere al mutato contesto di mercato in cui il rapporto sinallagmatico è rappresentato dallo scambio tra dato personale e servizio digitale.

Se questo è vero, occorre chiedere agli operatori del mercato, in primis le grandi piattaforme, uno sforzo nel ridisegnare l’ecosistema digitale che, al momento, risulta completamente sbilanciato, ponendo l’utente/consumatore al centro, non quale presunto beneficiario di servizi “gratuiti”, ma come controparte contrattuale.

In secondo luogo, a fronte di tale rinnovato approccio, occorre porre fine alla stagione della bulimia di dati personali, spesso non strettamente funzionali all’erogazione del servizio: il riconoscimento del valore economico del dato personale significa anche maggiore parsimonia nella loro fornitura ed utilizzazione.

In terzo luogo, occorre focalizzare maggiormente l’obiettivo della tutela e ridurre le fattispecie di illecito al fine di evitare che tutto l’impianto normativo in materia di data protection si trasformi unicamente in un enorme multificio (come sempre più sembra accadere).

Una battaglia vittoriosa nel nome della data protection dovrebbe basarsi su questi presupposti.

In alternativa, si può continuare a lanciare operazioni “militari” destinate ad una scarsa effettività: in questo caso non si dica che l’antica saggezza cinese non ci aveva avvisato.

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