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Google Glass

Google Glass addio, tutti gli inciampi del colosso fondato da Larry Page e Sergey Brin

Sono davvero numerosi i device e i programmi Google durati un battito di ciglia e Glass è solo l'ultimo esempio: da Stadia a Google+, quando anche i grandi sbagliano

A inanellarli tutti si comprende la potenza economica di Google. Perché di idee fallite, sepolte dal disinteresse del pubblico, il colosso di Mountain View ne ha raccolto davvero tante e se fosse stata un’azienda normale probabilmente avrebbe dovuto portare i libri in tribunale da parecchio tempo. L’addio ai Google Glass, gli occhiali intelligenti e hi-tech che avevano cercato una seconda vita almeno tra i professionisti, soprattutto in ambito scientifico, è difatti solo l’ultimo esempio di insuccesso commerciale che ha bruciato milioni di dollari. Ma andiamo con ordine.

GOOGLE GLASS APPANNATI

La compagnia ha annunciato che il 15 marzo è terminata la vendita dei dispositivi Enterprise Edition e che dal prossimo 15 settembre terminerà anche il supporto. Si chiude così, nel più mesto dei modi, la storia dell’ultima versione, arrivata a distanza di circa quatto anni dalla Explorer Edition, che fu resa disponibile a inizio 2013 (ma se ne iniziò a parlare dall’anno prima).

Dieci anni all’apparenza sembrano molti per un prodotto, soprattutto se altamente tecnologico, ma in realtà aumentando lo zoom si percepiscono le tante, inutili, correzioni operate in corsa. Già nel gennaio del ’15, difatti, Google decise di chiudere definitivamente il progetto Glass per il grande pubblico, puntando solo alle imprese. Ma nemmeno quelle si sono rivelate interessate.

L’ULTIMO MESSAGGIO PRIMA DI SPEGNERE GOOGLE GLASS

“Grazie per oltre un decennio di innovazione e partnership”, ha scritto Google annunciando la fine del progetto. Eppure occhiali e tecnologia sono un binomio che continua ad affascinare le big tech: Meta avrebbe in cantiere una versione decisamente più tecnologica dei Rayban Stories, prodotti insieme a EssilorLuxottica, con un piccolo display su cui mostrare contenuti in arrivo dalle piattaforme social del gruppo e dal metaverso, ma si parla del 2025. E comunque proprio al fine di rilanciare il suo metaverso, che arranca, Meta intende aprirlo anche a chi non userà visori di alcun tipo. E poi c’è Apple, che dovrebbe entrare nell’agone ma si attendono ancora informazioni dettagliate.

TUTTE LE ALTRE IDEE MAL NATE

Ma soprattutto, come si anticipava, c’è una compagnia, Google, che se ha la forza finanziaria di mappare tutte le strade (e non solo) del pianeta ha anche le spalle sufficientemente larghe per reggere alle idee abortite anzitempo.

La più clamorosa è senz’altro Google+, al secolo pure Google Buzz (ma si sarebbe dovuto chiamare Google Me) ovvero il tentativo di Mountain View di sconfinare nel campo social presidiato da Menlo Park.

Molto efficacemente il New York Times all’inizio del 2014 la descrisse “La città fantasma” di Internet. E dire che i presupposti per sfondare c’erano tutti, a iniziare dal fatto che chiunque avesse un account a gmail o a qualunque altro servizio si ritrovasse coattamente utente di quella piattaforma mai decollata.

CHI RICORDA NEXUS Q O ARA?

Già dimenticato anche Nexus Q, dispositivo dalla forma sferica elegante che oggi definiremmo una Alexa ante litteram, pescando contenuti nel cloud per interagire con dispositivi connessi come casse, smartphone e tablet. Rivivrà come Chromecast. Ricordiamo che Google Chromcast audio fu chiuso nel 2019. Andrò male pure ad Ara, l’incursione di Big G nel campo smartphone.

E poi ci fu anche un nonno del metaverso: Lively, estensione di Gmail che permetteva agli iscritti al servizio di posta di conversare tra loro per mezzo dei propri avatar: la beta durò appena da luglio a dicembre del 2008.

Precorreva i tempi pure Google Health che rappresentava un enorme cloud medico: uscì nel 2008 e durò nemmeno quattro anni: forse meglio così visto che difficilmente avrebbe passato le maglie della Gdpr europea.

Non andò meglio a Wave, una specie di Slack (messaggistica professionale per uffici) sparito nel giro di un anno, Picasa, software di foto ritocco chiuso nel 2016 e nemmeno ad Allo, software di messaggistica che sfruttava l’intelligenza artificiale per rispondere, chiuso nel 2019; fallito Google Video la compagnia fece finta di nulla acquisendo YouTube.

GOOGLE SPEGNE STADIA

Google Video ha avuto formalmente una vita più lunga, dal 2005 al 2012. In realtà è stata piuttosto breve, perché meno di due anni dopo il suo lancio Big G avrebbe comprato YouTube. Il “Tubo” ha inghiottito Google Video, che prima ha sospeso il caricamento di contenuti (nel 2011) e poi ha chiuso l’attività. E poi ovviamente abbiamo Google Stadia, deceduta all’inizio di quest’anno.

INCIAMPI PURE NELLA CHIUSURA

Secondo quanto emerso da un report di 9to5 Google, Phil Harrison, vicepresidente e direttore generale di Google ed ex vicepresidente aziendale di Microsoft, avrebbe annunciato ai dipendenti di Google la chiusura del progetto Stadia solamente pochi minuti prima che la notizia diventasse di dominio pubblico.

Stando infatti a questa ricostruzione (che, ribadiamo, è una voce di corridoio), Harrison avrebbe inviato una email ai dipendenti alle 07:00 del mattino per convocare una riunione per le 08:30. La notizia, invece, è stata pubblicata sul blog di Google alle 09:15.

TUTTI I SEGNALI DELLA CHIUSURA

In realtà gli analisti davano Google Stadia se non per morto per moribondo da parecchio. La stessa Google aveva chiuso all’improvviso lo studio interno per lo sviluppo di videogames per tamponare le perdite (licenziando dall’oggi al domani 150 sviluppatori e una delle più note e apprezzate donne del comparto: Jade Raymond, ex manager di Ubisoft Toronto, ex EA, per un brevissimo periodo a capo di Stadia Games & Entertainment, ora già riparata in Sony Ent.), sebbene continuasse a negare di voler sopprimere la console.

«Stadia non sta chiudendo. Stai tranquillo, stiamo sempre lavorando per portare nuovi grandi giochi sulla piattaforma e su Stadia Pro. Facci sapere se hai altre domande». Scrivevano i social media manager il 29 luglio su Twitter. E in quella data probabilmente il shut down era già stato deciso.

L’INIZIATIVA PER SALVARE IL SALVABILE

O forse no, perché il canto del cigno lo si ha avuto il 2 agosto, con l’ultima – ex post potrebbe essere definita “disperata” – iniziativa: dar modo di provare per mezz’ora, ma anche per un’ora 120 titoli, anche senza l’obbligo di registrarsi. Ma nemmeno quella trovata, che deve avere avuto costi considerevoli date le licenze coinvolte, ha ampliato la base d’utenti, se a fine settembre è stata pronunciata la sentenza di morte.

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