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Tecnologia

Come vanno i settori ad alta tecnologia in Italia. Report Intesa

Pubblichiamo l'executive summary del Monitor dei settori ad alta tecnologia curato dalla direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo

 

La crisi economica generata dalla diffusione del coronavirus e dal conseguente lockdown nelle principali economie mondiali e in Italia, investirà nel 2020 in maniera asimmetrica i diversi settori economici, compresi i settori ad alta tecnologia (farmaceutica, biomedicale, ICT e aerospazio).

Il settore farmaceutico, così come quello biomedicale, evidenzieranno una maggiore tenuta grazie alla domanda di medicinali (con prospettive più favorevoli per i produttori di vaccini) e dispositivi medici, necessari per far fronte all’emergenza sanitaria. Un’evoluzione meno negativa si osserverà anche in alcuni segmenti del mondo ICT sostenuti dalla forte spinta alla digitalizzazione nei più diversi ambiti, dall’industria ai servizi anche sanitari-assistenziali ed educativi, che sosterrà infatti la domanda di prodotti e servizi ad elevato contenuto tecnologico.

Gli avvenimenti più recenti hanno inoltre mostrato i limiti e le fragilità di lunghe global value chain, facendo emergere riflessioni sui rischi legati a possibili nuove impreviste interruzioni degli approvvigionamenti, che potrebbero portare a un accorciamento delle filiere. Questo potrebbe generare una maggiore regionalizzazione degli scambi, definendo anche nuovi ruoli per le multinazionali tipicamente presenti in questi settori. Questi fattori, insieme alla crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina per la leadership tecnologica, come testimoniato anche dalla recente vicenda relativa al 5G, potrebbero contribuire a definire un nuovo ruolo per l’Europa e l’Italia.

Tra i settori ad alta tecnologia, sarà invece il settore aerospaziale quello con le prospettive più difficili, condizionato dal blocco del traffico aereo, e che deprimerà gli investimenti e le performance dei principali player del settore.

Lo scenario è però caratterizzato da molteplici elementi di incertezza, che impatteranno le prospettive dei settori ad alta tecnologia, sia nel 2020 che negli anni futuri, con anche possibili ricadute sulla struttura produttiva degli stessi. La specializzazione del nostro Paese in alcune di queste produzioni ad alto contenuto tecnologico, come la farmaceutica (con una forte specializzazione nei vaccini), così come in alcune nicchie produttive nel mondo dei dispostivi medici e/o nell’elettronica potrebbe però rappresentare un’importante opportunità di ripartenza per la nostra economia.

Alla luce di queste considerazioni l’obiettivo di questa nuova edizione del Monitor dei settori ad alta tecnologia è quello di analizzare lo stato dell’arte nel processo di internazionalizzazione dei settori ad alta tecnologia, tenendo conto di molteplici punti di vista.

Dopo aver analizzato i flussi commerciali dei settori ad alta tecnologia italiani nel 2019 e nei primi 3 mesi del 2020 (capitolo 1), un focus specifico è dedicato al commercio mondiale di prodotti anti-COVID (dispositivi medici usa e getta, abbigliamento e sistemi di protezione, disinfezione e sterilizzazione, etc etc), che mostra il posizionamento italiano nel contesto globale per questa particolare categoria di beni (capitolo 2). L’elevata internazionalizzazione che caratterizza questi settori è evidente anche dal peso che gli investimenti esteri hanno e dal ruolo delle multinazionali (estere e italiane) presenti nel nostro Paese e che vengono analizzati nel capitolo 3. Infine, per completare il quadro sull’internazionalizzazione, nel capitolo 4 viene approfondito il tema delle catene globali del valore nel settore dell’elettronica.

Nel 2019 l’export dei settori italiani ad alta tecnologia è cresciuto del 13,2% rispetto al 2018 (variazione a prezzi correnti), confermando il trend positivo osservato negli ultimi 10 anni, e raggiungendo così 60,8 miliardi di euro, livelli record. Le esportazioni di questi settori rappresentano il 13,4% dell’export manifatturiero italiano, un peso in progressiva crescita negli ultimi dieci anni. A sostenere la performance dei settori high-tech ha contribuito in particolare il comparto farmaceutico, che ha evidenziato un incremento superiore al 25%. Segnali positivi sono stati registrati anche per il biomedicale (+6,4% in accelerazione rispetto al 2018) e l’aerospazio (+3,1%), mentre si è osservato un calo per l’export del settore ICT (-1,5%).

Il 65% delle esportazioni dei settori ad alta tecnologia ha origine dai 24 poli tecnologici individuati e monitorati costantemente nelle nostre analisi. Il 2019 si è chiuso in crescita per 15 poli high-tech, con risultati particolarmente brillanti per i cluster della farmaceutica che si sono tutti attestati su valori delle esportazioni ai massimi storici. È risultato positivo anche lo scenario dei poli biomedicali, con 4 su 5 realtà in crescita, e quello dei poli aerospaziali. È risultato più eterogeneo invece il contesto dei poli ICT, in cui ai buoni risultati di Catania, Trieste e Roma, si è contrapposto il calo di esportazioni dell’ICT di Milano e Monza, primaria realtà del settore.

Nel primo trimestre 2020 le esportazioni di prodotti ad alto contenuto tecnologico hanno registrato un incremento del 12% circa, 1,5 miliardi in più rispetto allo stesso trimestre del 2019. A sostenere l’export dell’industria high-tech nei primi 3 mesi dell’anno ha contribuito ancora una volta il settore farmaceutico (+24%), che anche a marzo ha segnato un aumento a doppia cifra (+32,5%), sostenuto dalle vendite di medicinali e preparati farmaceutici. Se nel settore ICT il datocumulato dei primi 3 mesi è risultato positivo, l’evidenza di marzo ha segnato una brusca frenata per tutte le componenti, fatta eccezione per i prodotti di elettronica di consumo audio e video, che potrebbero aver beneficiato della crescente domanda per alcune tipologie di beni elettronici connessi alla necessitò di utilizzare PC e strumenti tablet per lavorare e/o studiare da casa. Si è osservato un calo anche delle esportazioni dei settori aerospaziale e biomedicale.

Per quanto riguarda il settore biomedicale un’analisi più approfondita sul commercio mondiale di dispositivi medici è stata fatta a partire da una classificazione dei prodotti più ampia e dettagliata che ha permesso di definire, partendo da nostre precedenti analisi e integrandole con il materiale messo a disposizione dall’Organizzazione Mondiale delle Dogane congiuntamente con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una lista di beni anti-COVID-19 che spaziano tra più settori (tessile, abbigliamento, elettronica, chimica). L’emergenza causata dalla pandemia legata al COVID-19 ha infatti aumentato in modo significativo, in Italia come in altri paesi industrializzati, la domanda di sistemi di protezione personale e di disinfezione (disinfettanti, mascherine, camici usa e getta, lenzuola, maschere etc.), di prodotti per la diagnosi (kit, reagenti, macchinari per le analisi, le radiografie etc.), di beni per il monitoraggio e la cura (dagli ossimetri ai respiratori etc.).

Nel 2018 l’insieme di prodotti anti-COVID-19 ha generato un flusso di commercio internazionale pari a oltre 760 miliardi di dollari, quasi la metà attribuibile al comparto della disinfezione e sterilizzazione. Seguono, con importi intorno a 120 miliardi di dollari, il comparto dell’elettromedicale e quello dei dispositivi medicali usa e getta. L’abbigliamento e i prodotti protettivi hanno dato luogo a un flusso di esportazioni mondiali pari a poco più di 60 miliardi, mentre la diagnostica e gli altri prodotti hanno registrato esportazioni globali pari, rispettivamente a 47 e 39 miliardi. Meno rilevanti i flussi degli altri prodotti e del mondo dei veicoli (8 miliardi).

Per quanto riguarda l’insieme di questi prodotti spicca il ruolo della Germania con una quota sul commercio mondiale del 13,4%, seguita da Stati Uniti (12,1%) e dalla Cina (10,1%). L’Italia, con una quota pari al 3,7%, occupa il nono posto tra i primi 10 esportatori mondiali, con un miglior posizionamento nei comparti della disinfezione e sterilizzazione, dell’abbigliamento e sistemi di protezioni e nella produzione di veicoli. L’analisi in termini di saldo normalizzato fa emergere, nel complesso, un buon posizionamento dell’Italia che si colloca al quinto posto, dopo Irlanda, Cina, Svizzera e Germania.

I dati Istat relativi al commercio estero di prodotti anti-COVID consentono di dare una prima evidenza di quanto accaduto durante la pandemia, per lo meno per quanto riguarda i suoi esordi. Nel mese di marzo l’Italia risulta aver importato, rispetto allo stesso mese del 2019, quasi 200 milioni di euro aggiuntivi di prodotti medicali e sanitari legati all’emergenza. Spiccano per incrementi in valore assoluto i flussi aggiuntivi di prodotti per la disinfezione e la sterilizzazione in arrivo da Irlanda (+83,5 milioni di euro), Belgio (+74,2 milioni di euro), e il balzo degli acquisti dalla Cina di abbigliamento protettivo, con 71,4 milioni di euro in più rispetto a marzo 2019. Da segnalare, come, anche le esportazioni italiane relative a questi prodotti siano aumentate in modo significativo (soprattutto prodotti per disinfezione e sterilizzazione verso Stati Uniti, Francia e Belgio) contribuendo ad aumentare il saldo commerciale di 250 milioni nel solo mese di marzo.

L’elevata internazionalizzazione dei settori ad alta tecnologia, emersa dall’analisi sui flussi commerciali, trova conferma anche nell’analisi sugli investimenti esteri in entrata (IDE IN). Se l’Italia si caratterizza per una presenza limitata di investimenti esteri e inferiore alla media europea, nei settori ad alta tecnologia il peso degli IDE IN risulta quasi doppio rispetto a quello del dato dell’economia evidenziando una capacità di attrarre capitali esteri più simile a quella dei principali competitor europei.

È il settore farmaceutico quello che evidenzia il peso di IDE IN più rilevante: circa il 60% del fatturato e il 50% degli occupati del settore è originato da multinazionali estere. Segue per rilevanza di capitali esteri sul settore il comparto delle TLC, con un peso di IDE IN in termini di fatturato del 44% (23% sull’occupazione). Evidenziano un minor peso degli IDE IN i settori dell’elettronica (22% in termini di fatturato e 17% su occupazione) e quello del software (22% sul fatturato e 13% sull’occupazione).

I settori ad alta tecnologia in Italia si caratterizzano per una minore diversificazione geografica di provenienza di IDE IN rispetto agli altri paesi europei. Più di un quarto degli investimenti nei settori high tech in Italia è di origine statunitense: gli USA costituiscono il principale paese di provenienza di IDE per i settori dell’elettronica, farmaceutica e software. Seguono gli investimenti provenienti da Regno Unito, Svizzera e Francia. La Cina (esclusa Hong Kong) occupa la tredicesima posizione evidenziando un ruolo ancora contenuto come investitore nei settori hitech in Italia.

Dall’analisi su un campione di 9.479 imprese dei settori ad alta tecnologia, di cui 795 multinazionali estere (che rappresentano un fatturato di circa 54 miliardi di euro) emerge come queste imprese siano mediamente più grandi rispetto alle multinazionali italiane (e alle imprese italiane), e prevalentemente localizzate in Lombardia. L’attività di investimenti esteri è cresciuta nel tempo: circa la metà di tutti gli investimenti in entrata nei settori ad alta tecnologia è avvenuta nell’ultimo decennio.

Le performance di crescita delle multinazionali estere nel 2018 evidenziano un andamento meno brillante rispetto ai player italiani, e indicatori di redditività più bassi, condizionati presumibilmente
da politiche di transfer price con la casa madre. Il legame che la multinazionale estera detiene con la casa madre si riflette anche sull’adozione di alcune leve strategiche (brevetti, marchi, certificazioni ambientali e di qualità) che risultano meno diffuse rispetto alle multinazionali e imprese italiane.

Per completare il quadro sul fenomeno dell’internazionalizzazione, nell’ultimo capitolo è stato affrontato il tema delle catene globali del valore focalizzando l’attenzione sull’elettronica.
I prossimi anni vedranno il settore dell’elettronica divenire sempre più cruciale per la trasformazione del tessuto produttivo. Con l’accelerazione sul fronte della rivoluzione 4.0 e dell’automazione si assisterà, molto probabilmente, ad un aumento del peso degli input elettronici nelle produzioni manifatturiere, persino nei settori a basso contenuto tecnologico, ad oggi meno impattati dalla trasformazione. A maggior ragione dopo l’esperienza vissuta durante la fase più critica della pandemia da COVID-19, quando si è toccato con mano il beneficio di una gestione non tradizionale degli impianti produttivi.

L’analisi, realizzata a partire dal World Input-Output Database (release 2016), ha messo in luce in primis il profondo processo di trasformazione della filiera elettronica mondiale evidenziando lo spostamento del baricentro produttivo dagli Stati Uniti alla Cina. Se nel 2000 la produzione cinese di elettronica rappresentava il 7,4% della produzione mondiale, nel 2014 questa quota è salita al 33,7%. All’opposto, il peso statunitense è passato dal 27% al 14,8%. Anche in termini di GVC income (un indicatore sintetico di posizionamento nelle catene globali del valore) la crescita cinese (dal 6,1% del 2000 al 29,4% del 2014) fa da specchio al declino statunitense (dove l’indicatore passa dal 29,2% del 2000 al 16,4% del 2014). Ciò si deve non solo alla crescita del mercato interno cinese di elettronica, e all’elevato contributo domestico alla filiera, ma anche al ruolo di primo piano giocato dagli input intermedi cinesi (elettronici e non) che confluiscono nei prodotti finali di elettronica assemblati altrove: si tratta di 53,2 miliardi di dollari, contro i 37,3 miliardi degli Stati Uniti. Nello specifico, se si isolano solo gli input intermedi elettronici che dalla Cina raggiungono le varie filiere di elettronica nel mondo (14 miliardi di dollari), e si confrontano con quelli americani (11,8 miliardi) si osserva una netta predominanza cinese in tutte le aree del mondo, fatta eccezione per il NAFTA.

In un contesto competitivo tutt’altro che favorevole, influenzato dalla disputa Cina-USA per mantenere la supremazia tecnologica, anche le filiere europee dell’elettronica si sono trasformate profondamente: i paesi europei nel loro complesso hanno sperimentato una contrazione del loro peso sulla produzione mondiale (dal 19,5% del 2000 al 12,2% del 2014).

Un’analisi più dettagliata mette in luce, in realtà, una situazione a macchia di leopardo, con una contrazione dei livelli produttivi della filiera francese (-43,3%, sempre nel periodo 2000-14), inglese (-35,5%) e, in misura più contenuta, spagnola e svedese. In crescita, invece, le filiere tedesca (+25,9%) e italiana (+31,6%).

Dalla scomposizione della filiera elettronica italiana emergono alcuni tratti caratteristici. La catena produttiva risulta più aperta all’apporto di valore aggiunto estero, rispetto a quelle dei partner europei. In termini di macroaree geografiche, la quota preponderante degli input intermedi proviene dai paesi maturi dell’Unione Europea. Tra il 2000 e il 2014 si osserva, inoltre, un aumento del peso dei paesi dell’Est Europa e dell’Asia (si tratta del 5,1% degli input totali che confluiscono nella produzione di beni finali di elettronica in Italia, contro il 3% del 2000). In calo, invece, gli input provenienti dal NAFTA (l’1,9%, contro il 4,9% del 2000). Un’analisi ancor più dettagliata per singoli paesi fornitori e settori che contribuiscono alla GVC di Elettronica dell’Italia, mette in luce un ruolo della Germania più rilevante di quello della Cina: l’apporto di valore aggiunto tedesco ammonta al 6,2%, contro il 3,2% di valore aggiunto cinese. Gli input tedeschi predominano su quelli cinesi non solo nel complesso dei settori manifatturieri (con un peso del 3,7%, contro l’1,7% degli input cinesi) che contribuiscono ai beni finali di elettronica, ma anche se si considerano alcuni settori chiave, dagli intermedi elettronici a quelli chimici e di elettrotecnica, dal mondo dei metalli alla meccanica, ai servizi di ricerca e sviluppo.

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