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Tutte le difficoltà e i dubbi sul piano della Cina per i semiconduttori

La Cina vorrebbe razionalizzare il proprio settore dei semiconduttori, oggi formato da tante aziende spesso ridondanti, favorendo le acquisizioni e la nascita di grandi campioni nazionali. L'attuazione del piano, però, procede con difficoltà per ragioni economiche e tecnologiche. Tutti i dettagli.

La Cina sta avendo difficoltà a rafforzare l’industria nazionale dei semiconduttori. Il piano del governo – così hanno rivelato diverse fonti al Financial Times – consiste in una mega-operazione di fusione tra più aziende attive nelle apparecchiature per i microchip che faccia confluire tecnologie diverse all’interno di un’unica grossa società statale: in sostanza, Pechino vorrebbe promuovere una sorta di “razionalizzazione” del settore, passando dall’attuale situazione di frammentazione a uno scenario dominato da pochi grandi campioni nazionali capaci di competere con i gruppi statunitensi e più autosufficienti, in grado quindi di far fronte alle restrizioni commerciali imposte da Washington.

LE DIFFICOLTÀ

L’attuazione del piano, tuttavia, procede con difficoltà. Gli interessi in ballo sono tanti e diversi, e trovare una sintesi che accontenti tutti si sta rivelando complicato perché le aziende e gli investitori coinvolti nelle discussioni sulle fusioni non vogliono rimetterci: in breve, chi dovrebbe acquisire non intende pagare un sovrapprezzo, e chi dovrebbe venire acquisito non intende vendere in perdita.

Stando così le cose, secondo una fonte del Financial Times è improbabile che il governo cinese riesca a raggiungere l’obiettivo di un consolidamento su larga scala dell’industria dei semiconduttori.

L’ACQUISIZIONE PIÙ GRANDE

Nel 2025 finora sono state annunciate ventisei operazioni di acquisizione nel settore dei semiconduttori: la più grande, a maggio, è quella tra Hygon (che progetta processori per i server e i data center) e Sugon (che realizza supercomputer), dal valore di circa 16 miliardi di dollari.

L’AUTOSUFFICIENZA SULLA FILIERA DEI SEMICONDUTTORI

Il consolidamento nel settore dei macchinari per i microchip sarebbe d’aiuto alla Cina nella costruzione di una filiera autosufficiente che possa sostituire le apparecchiature statunitensi, come quelle di Applied Materials o di Lam Research.

Ad oggi, una fabbrica cinese di microchip che volesse utilizzare strumentazioni cinesi dovrebbe rifornirsi da tanti venditori diversi, le cui tecnologie però non sono ben integrate tra di loro; di conseguenza, l’intero processo manifatturiero diventa più complicato e meno efficiente.

Inoltre, una situazione di frammentazione in tante piccole aziende non facilita il raggiungimento dell’economia di scala necessaria a realizzare i grandi investimenti richiesti per l’avanzamento tecnologico. Le autorità cinesi pensano invece che pochi campioni nazionali sarebbero capaci di competere anche sui mercati esteri.

I DUBBI SUL PIANO DELLA CINA

Non è detto, però, che le fusioni promosse da Pechino saranno sufficienti al raggiungimento dell’innovazione tecnologica.

Perché abbiano successo, infatti, le acquisizioni dovrebbero avvenire tra aziende in possesso di tecnologie di alto valore, che garantiscano poi un qualche vantaggio competitivo alla nuova entità; in molti casi, tuttavia, questo prerequisito manca. Basti pensare che la spinta statale alle acquisizioni ha attirato diverse società completamente esterne al settore dei semiconduttori – dai gruppi immobiliari ai costruttori di macchine da maglieria ai produttori di scarpe – interessate ad acquistare asset sui microchip che possano arricchirle.

Inoltre, alcuni accordi di acquisizione già annunciati sono falliti: stando ai calcoli del Financial Times, sono otto finora nel 2025. Il fallimento più notevole è stato di Expedic da parte di Empyrean Technology, specializzato in automazione della progettazione elettronica.

In ultimo, la Cina non è in ritardo solo sui macchinari per il chipmaking ma anche nelle capacità manifatturiere: ci sono infatti tantissime fonderie (si chiamano così le fabbriche di microchip), sostenute da fondi pubblici, che spesso producono le stesse tipologie di semiconduttori tecnologicamente “maturi” e non adatti alle applicazioni avanzate, come i modelli di intelligenza artificiale o gli smartphone di ultima generazione.

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