Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è appassionato di criptovalute: ha lanciato una propria memecoin e una stablecoin basata sul dollaro; ha annunciato una riserva strategica che fungerà da assicurazione contro l’inflazione e da fondo per la riduzione del debito; ha detto che i bitcoin sono come “l’industria dell’acciaio di cento anni fa”, che l’America deve diventare la cripto-capitale del mondo e che la nazione deve potenziare le sue capacità di mining.
IL PENSIERO DI TRUMP DELLE CRIPTOVALUTE
Secondo Trump, le criptovalute – che si basano su una tecnologia di crittografia chiamata blockchain e non sono regolate da autorità centrali, come governi o banche – plasmeranno il futuro, e vuole perciò che queste monete vengano generate (in gergo “estratte”, da mining) e coniate (da minting) negli Stati Uniti. Le attività di mining richiedono computer dall’elevata capacità di calcolo e sono per questo particolarmente dispendiose sotto il punto di vista energetico.
IL RUOLO DEI COSTRUTTORI CINESI DI COMPUTER PER IL MINING
Le volontà della Casa Bianca di espandere l’industria nazionale delle criptovalute potrebbero però scontrarsi con la decisione delle tre principali società produttrici di macchinari per il mining – tutte cinesi – di aprire degli stabilimenti negli Stati Uniti in modo da ripararsi dalla guerra commerciale. Le tre società sono Bitmain, Canaan e MicroBt, che insieme controllano oltre il 90 per cento del mercato mondiale dei computer il mining – si chiamano in gergo mining rig -, un settore che secondo le proiezioni varrà 12 miliardi di dollari al 2028.
Bitmain, la più grande delle tre, ha iniziato a produrre mining rig negli Stati Uniti dallo scorso dicembre. Canaan ha avviato una produzione di prova dopo l’annuncio dei dazi ad aprile. MicroBt – che delle tre è quella con i livelli di vendita più bassi – ha fatto sapere di stare valutando l’apertura di impianti sul territorio americano per evitare le tariffe.
RISCHI DI SICUREZZA?
Il rischio per gli Stati Uniti, insomma, è che la loro capacità di “estrazione” di criptovalute si basi su macchinari cinesi. L’azienda statunitense Auradine ha avviato un’attività di lobbying per contrastare la concorrenza cinese: “mentre oltre il 30 per cento del mining globale di bitcoin avviene in Nordamerica, più del 90 per cento dell’hardware per il mining proviene dalla Cina, il che rappresenta un forte squilibrio geografico tra domanda e offerta”, ha dichiarato il direttore strategico Sanjay Gupta.
Gupta ritiene inoltre che la connessione alla rete elettrica statunitense di “centinaia di migliaia” di computer cinesi per il mining rappresenti un rischio per la sicurezza nazionale. Canaan ha negato, sostenendo che questi macchinari sia “inutili se non utilizzati per il mining di bitcoin”.
Gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per mining di bitcoin, con una quota superiore al 30 per cento, seguiti dal Kazakistan (18 per cento), dalla Russia (11 per cento) e dal Canada (9,5 per cento). La Cina – un tempo al secondo posto nella classifica globale del mining di bitcoin, nonché soggetto dominante lungo l’intera catena del valore – ha vietato le operazioni sulle criptovalute nel 2021 per ragioni di tutela della stabilità finanziario.
Il mercato statunitense è fondamentale per i conti di Canaan, visto che l’anno scorso ha contribuito per il 40 per cento alle entrate totali. Per favorire la sua proiezione internazionale e allontanare i legami con la Cina (dove comunque mantiene delle attività), ha anche spostato la sede centrale a Singapore.
IL PROBLEMA DELLA DIPENDENZA DALL’HARDWARE CINESE
Il primato cinese sui macchinari per l’estrazione di criptovalute “crea un punto di strozzatura per i miner statunitensi”, ha detto a Reuters John Deaton, avvocato specializzato in criptovalute. “Se la Cina limita le esportazioni o manipola l’offerta […] potrebbe sconvolgere la stabilità della rete di bitcoin e danneggiare gli utenti e gli investitori statunitensi”.
Negli Stati Uniti hanno sede le più grandi società di estrazione di criptovalute per capitalizzazione di mercato, ossia Mara, Core Scientific, CleanSpark e Riot Platforms. La loro dipendenza eccessiva dagli hardware cinesi potrebbe rivelarsi problematica: al di là delle eventuali implicazioni securitarie, i dazi di Trump faranno crescere i costi di importazione dei macchinari dalla Cina.