L’invasione russa dell’Ucraina si sta rivelando un boomerang su più fronti per Vladimir Putin: non solo ha spinto ad una maggiore unità la Nato e l’Unione europea, non solo ha convinto altri due paesi, Finlandia e Svezia, a chiedere l’adesione alla Nato, ma sta accelerando anche la costruzione della difesa comune europea. Bruxelles, infatti, ha appena varato un piano di riarmo Ue che, oltre a riempire gli arsenali svuotati con l’invio di armi a Kiev, si propone di acquistarne di nuove, purché prodotte dalle industrie europee, un po’ meno da quelle Usa.
Josep Borrell, responsabile per la politica estera e la sicurezza della Commissione Ue, lo ha detto in modo chiaro: «Oggi i paesi Ue acquistano il 60% delle capacità militari all’esterno. È troppo. Dobbiamo ridurre quanto prima questa dipendenza». Obiettivo ribadito da Thierry Breton, commissario Ue per il mercato interno: «Dobbiamo garantire che gli investimenti nel riarmo, finanziati con i soldi dei contribuenti europei, dovranno avvantaggiare in primo luogo l’industria europea».
Breton è francese e parla pro domo sua: da anni Emmanuel Macron è fautore di un esercito comune europeo e di una «autonomia strategica» dell’Europa nella difesa, in contrapposizione con la Nato a guida Usa. Inoltre, dopo la Brexit, è in Francia che hanno sede le maggiori industrie europee di armamenti. E le centinaia di miliardi che la Commissione Ue sta mettendo nel piatto per il riarmo sono un boccone troppo ghiotto perché i francesi se lo lascino sfuggire. A questa partita, tuttavia, è interessata anche l’Italia, che ha nel gruppo Leonardo (ex Finmeccanica), controllato dallo Stato, uno dei campioni europei del settore.
Secondo i dati del centro studi Sipri di Stoccolma (2017), i maggiori gruppi industriali in Europa nel settore della difesa appartengono a tre paesi: Gran Bretagna, Francia e Italia. Il primo è l’inglese Bae Systems (23 miliardi di euro di armi vendute all’anno; 82.500 dipendenti). In Francia operano i gruppi Thales (7 miliardi di vendite; 62mila dipendenti) e Safran (4,5 miliardi di vendite; 70mila dipendenti).
In Italia c’è Leonardo (8 miliardi di vendite; 47mila occupati). In aggiunta, il Sipri indica il gruppo multinazionale europeo Airbus, con sede in Francia, al secondo posto in Europa per volume di affari (13 miliardi di vendite; 136 mila dipendenti) dopo Bae Systems.
Oltre ai grandi gruppi, secondo il Sipri, nel settore dell’industria europea della difesa operano circa 1.350 imprese di piccole e medie dimensioni, con un’occupazione complessiva, tra diretta e indiretta, di un milione 200 mila unità. I paesi interessati, oltre ai tre maggiori indicati prima, sono Germania, Repubblica Ceca, Austria, Polonia e Spagna, impegnati nella produzione di munizioni e armamenti, che sono acquistati per lo più dai rispettivi governi nazionali.
Tutto questo favorisce le numerose duplicazioni dei sistemi di armamento in Europa, che causano spese eccessive quanto inutili ai fini dell’efficienza. Un dato su tutti: mentre gli Stati Uniti hanno un solo tipo di carro armato da battaglia, l’Unione europea ne ha ben 12, i cui pezzi di ricambio spesso non sono neppure intercambiabili.
Per porre rimedio a questa frammentazione produttiva, il piano Ue di riarmo prevede di introdurre una task force che dovrà sovrintendere agli appalti industriali, con il duplice obiettivo di concentrarli su armamenti comuni e, nello stesso tempo, impedire che i nuovi ordinativi producano una corsa al rialzo dei prezzi.
Una severità normativa dettata dal buon senso, ma anche da altri fattori: le risorse messe sul piatto dall’Ue, per ora, sono poche, appena 500 milioni di euro in due anni, del tutto inadeguate per parlare di riarmo europeo (un jet Rafale francese costa 115 milioni). Questi 500 milioni sono però un inizio e, dettaglio importante, sono attinti dal bilancio Ue. E poiché i trattati vietano le spese Ue per acquistare armi, per non violarli la Commissione Ue ha dovuto precisare che si tratta di fondi destinati all’industria e alla ricerca, non alla compera diretta di armi.
Per disporre di più risorse, dicono a Bruxelles, sarà necessario reperirle al di fuori del bilancio Ue, istituendo un Recovery per il riarmo simile al Next Generation Ue, vale a dire un fondo alimentato con un nuovo debito comune, ipotesi finora bocciata dalla Germania. In attesa degli sviluppi, va detto che anche la Germania è in prima fila per potenziare la propria industria militare. Ha già deciso di spendere cento miliardi di euro in più, oltre ai 52 miliardi annui di routine. E ha confermato l’impegno nel consorzio Knds franco-tedesco, a guida tedesca, per produrre il nuovo carro armato europeo Mgcs (Main ground combat system), destinato a sostituire entro il 2035 i Leclerc francesi e i Leopard 2 tedeschi.
Nell’ambito di questo progetto, la tedesca Rheinmetall, che fa parte del consorzio Knds, non ha nascosto il proprio interesse per l’acquisto di due aziende gioiello del gruppo Leonardo, la Oto Melara (armi terrestri) e la Wass (siluri navali), un affare che per mesi sembrava vicino a chiudersi, salvo bloccarsi dopo l’invasione dell’Ucraina, a fronte di un’offerta Fincantieri.
Quest’ultima vicenda conferma l’eccellenza della tecnologia italiana, già riconosciuta dall’Ue quando, in marzo, ha distribuito 600 milioni per la ricerca e lo sviluppo industriale nel settore delle armi. Allora, per i sistemi satellitari di difesa e per i droni, Leonardo ottenne più finanziamenti di Germania e Spagna, e fu superata solo dalla Francia.
Un ottimo biglietto da visita per l’Italia di Mario Draghi, che nel vertice di Versailles in marzo è stato, con Macron, promotore del nuovo Piano Ue di difesa. Un piano che, anche grazie all’aumento della spesa militare nazionale, potenzierà un settore strategico dell’industria italiana.
Articolo pubblicato su italiaoggi.it