Come abbiamo visto nei mesi passati, il mondo non era pronto all’exploit delle intelligenze artificiali. Non lo era quello delle Big Tech, convinte che l’innovazione del futuro sarebbe stato il metaverso (già fallito), non lo era quello del lavoro, con centinaia di licenziamenti da parte di imprenditori senza scrupoli che sperano di poter contare su un nuovo tipo di manodopera inossidabile, non lo è quello giuridico, perché tante domande restano ancora in attesa di risposta: si va da “chi risponde per le diffamazioni delle IA?” alle questioni già viste sul diritto d’autore che poi si coagulano attorno a un altro interrogativo che potrebbe essere alla base della prima class action contro OpenAI: ChatGpt quando pesca a strascico per il Web starebbe forse rubando?
LA POSSIBILE CLASS ACTION CONTRO OPEN AI
È la tesi rinvenibile nelle centocinquantasette pagine che contengono ben quindici capi di accusa e richieste di risarcimento per tre miliardi di dollari avanzate da sedici attori e, per così dire, condensate, in questo atto introduttivo depositato davanti a un Tribunale californiano dallo Studio Legale Clarkson con il quale si chiede al Giudice di ammettere la prima class action contro ChatGpt, il chiacchieratissimo servizio di intelligenza generativa realizzato da OpenAI grazie, tra gli altri, a un finanziamento multimiliardario di Microsoft.
COME FUNZIONANO CHATGPT & CO
Per capire se le pretese abbiano speranza di essere ritenute fondate o meno bisogna anzitutto comprendere come funzionano ChatGpt & soci, che hanno nei dati che trovano sul Web il loro pascolo ideale, ruminati, trasformati e risputati a seconda dell’uso che ne devono fare quando vengono interrogati.
I DATI SONO “RUBATI”?
Secondo i promotori della potenziale class action contro OpenAi, ChatGpt pascolerebbe senza chiedere il “permesso” agli aventi diritto, insomma, ai proprietari dei pascoli o meglio dei dati che ciascuna intelligenza artificiale elabora e rielabora per funzionare sempre meglio. Da qui le varie accuse: dal furto vero e proprio alla violazione del diritto d’autore passando per quella alla privacy.
LA RICHIESTA DI STACCARE LA SPINA A CHATGPT
E, appunto, la richiesta al giudice di instaurare una class action da parte dei sedici autori dell’atto: quei dati appartengono difatti a un numero sterminato di persone, che potrebbero voler essere risarcite da OpenAi.
Inoltre i ricorrenti, nelle more della decisione, chiedono che il Giudice ordini a OpenAI di bloccare lo sviluppo e il funzionamento di ChatGpt: staccargli dunque la spina fino a quando non sarà accertato se il suo modo di operare è legale o meno.
GLI SCENARI CHE SI APRONO
Simili richieste peraltro potrebbero iniziare a fioccare in qualsiasi tribunale del mondo, dato che non esiste un foro esclusivo: dunque se il giudice californiano investito della decisione rigettasse la richiesta, nulla vieta a uno studio legale di New York di riproporla e così via finché non si trovi la Corte decisa a comprendere di più sul funzionamento delle intelligenze artificiali.
Se moltiplichiamo un simile esempio per tutti i tribunali del mondo, gli sviluppatori di ChatGpt potrebbero essere in guai seri o almeno essere costretti a sfornare un algoritmo dedicato esclusivamente a smistare le citazioni in giudizio…