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Armando Testa fuori di testa su Open to Meraviglia? Dibattito

L'agenzia di Armando Testa risponde alle critiche sulla Venere influencer con toni che hanno provocato dibattito e polemiche, non tutte critiche alla pubblicità autoelogiativa dell'agenzia

 

Gli esperti in comunicazione sono loro. Cioè i creativi dell’agenzia di Armando Testa, ma forse era meglio quando nel loro sito era quasi impossibile trovare traccia dello spot (assente da quello principale, rinvenibile solo nel sottosito newsroom) commissionato dal dicastero del Turismo di Daniela Santanché. Invece quest’oggi hanno voluto acquistare nientemeno che una pagina sul Corriere della Sera per spiegare le loro ragioni, per controbattere alle critiche, il tutto però camuffato da un ringraziamento permeato da ironia e sarcasmo.

armando testa venere corriere

Di fatto, dall’agenzia fanno sapere che l’obiettivo è stato raggiunto, che i social parlano solo della Venere di Testa, che loro insomma la sanno lunga e chi critica non capisce nulla di pubblicità. O peggio, fa persino il loro gioco.

“Quando una campagna di promozione turistica rompe il muro dell’indifferenza e riesce a dar vita a un dibattito culturale come quello acceso in soli 5 giorni, rappresenta sempre qualcosa di positivo. Grazie perché non accadeva da anni che la notizia di una campagna istituzionale suscitasse una eco di tale portata”. Quindi dall’Agenzia mettono le mani avanti: “Si tratta di una campagna solo presentata ma non ancora uscita”.

E poi ha inizio una replica passivo-aggressiva sui toni di una ironia abbastanza livorosa che, prevedibilmente, porterà altre polemiche: “Grazie a tutti coloro che hanno immaginato che il video destinato alla presentazione del progetto – e dunque realizzato con materiale di repertorio – fosse già lo spot ufficiale”. Con queste poche righe si provano ad archiviare le critiche piovute da ogni parte sulle sbavature, gli errori, le immagini da quattro soldi di stock, i fondali sloveni, la modella testimonial a sua insaputa, ulteriormente ingigantite da un sito disponibile in appena quattro lingue senza il francese, traduzioni automatiche che trasformano le città di Camerino in Garderobe o di Brindisi in Toast.

Ma da Armando Testa si tira dritto per la propria strada, a difesa della Venere influencer. “Grazie per le migliaia di visualizzazioni, di meme, commenti: ci hanno fatto sentire davvero la più grande agenzia italiana, con un immenso reparto creativo di milioni di persone al lavoro sullo stesso concetto”. Quasi a dire: se è brutto, le risorse sono quelle che sono. Già, le risorse. Quanto alle polemiche sui costi: “Grazie a chi ci ha fatto sentire milionari! Ma i 9 milioni di euro dell’Enit sono destinati alla pianificazione media in tutti i principali mercati.”

Nella chiusura si lasciano prendere la mano: “La Armando Testa ringrazia e Venere con noi: erano più di 500 anni che non si parlava di lei così tanto. Se non è meraviglia questa”. Insomma, la campagna ministeriale tira la volata all’opera d’arte e non il contrario, nella contro-narrazione dei pubblicitari.

 

E subito, prevedibile, un altro fiume di polemiche social sulla replica dell’agenzia Armando Testa, con la Venere influencer che schizza nuovamente in cima ai trend topic del Paese. Il sanremasco Adriano Attus, direttore creativo del Sole 24 Ore pronosticando le discussioni che seguiranno, inizia a raccoglierle dal proprio profilo Twitter.

 

La giornalista Marianna Aprile del settimanale Oggi (Rcs) si affida all’ironia: Close to prego (la pagina acquistata sul Corriere si apre con il claim maccheronico Open to grazie). Così come il collega Giuseppe Smorto, una vita a Repubblica: “Ho capito che alla Armando Testa hanno bisogno di sparacazzate, mi candido!”

 

Selvaggia Lucarelli, che più di tutti aveva insistito sulle pecche della campagna della Venere influencer di Testa, sottolinea: “Risposta piccata della serie: purché se ne parli. La dimostrazione che non hanno buoni copy e buone idee, appunto”.

 

Gianandrea Facchini, Founder & CEO di Buzztech tira in ballo il guardaroba del ministro.

 

Matteo Flora, docente, esperto di reputazione e crisi, attacca: “Quanto fa 1990, non aver capito che se tutti parlano di te ricordandoti come un cretino no, non diventi per magia un genio. Sei solo un cretino popolare”. E poi rimarca: “Popolarità e valore sono concetti differenti”.

 

“Non credo che dare degli stupidi a tutti quelli che ti criticano sia una mossa saggia”, scrive sulla sua pagina Facebook Daniele Chieffi, già Head of Social Media management & Digital PR presso Eni e  Direttore Comunicazione e PR presso Ministro dell’Innovazione e la digitalizzazione. “In comunicazione se le audiences capiscono qualcosa di diverso da quello che vuoi comunicare è il comunicatore che sbaglia non il pubblico. Non è la campagna definitiva? Perché presentarla allora? Perché, sapendo che sarebbe diventata pubblica, non registrare i domini, gli handle dei social, non curare le traduzioni sul sito (Camerino=Garderobe) e usare immagini di stock slovene?” “Ma poniamo – continua Chieffi – che sia veramente così, perché attendere giorni prima di dire: “Fermi tutti, non è la campagna vera, solo la presentazione dell’idea creativa”? Comunque ora la lettera c’è e dice, in sostanza, che siamo tutti allenatori della Nazionale, virologi e creativi “milioni di creativi”, talmente ingenuamente bravi da credere che l’agenzia avesse incassato 9 milioni di euro e che alla fine grazie ma proprio grazie per aver fatto macinare numeri stellari a una campagna istituzionale, all’insegna del “purché se ne parli”. Peccato che non funziona così: non conta quanto se ne parli ma come se ne parli. È dagli anni ’90 che il mondo della comunicazione è cambiato”.

Enrico Sola, esperto nel campo della pubblicità, noto per il blog Suzukimaruti, in un lungo post annota: “Sia chiara una cosa: in quell’agenzia sanno tutti benissimo che il “purché se ne parli” è una stupidaggine che non ha senso. Lo usano lo stesso, come cortina di fumo per chi non è pratico di comunicazione (e se non cambia idea, non pratico di vita) e ancora dice “ne parlano tutti: è una campagna di successo!”.

Pensieri telegrafici prima di andare a fare danni al lavoro, dato che l’agenzia co-responsabile della campagna “Open to Meraviglia” ha pensato bene di comprare una pagina sul Corriere della Sera per dare la sua risposta alle polemiche che hanno accolto la sua creatività per il Ministero del Turismo.
1 – La pagina è scritta bene e si sente la mano di un copy (a parte un “ed anche” verso la fine che ha avuto l’effetto “unghie sulla lavagna”). Il testo è così interessante, come tecnica di scrittura, che Gaia a quanto pare lo farà analizzare ai suoi allievi stamattina a lezione.
2 – Il testo fa chiarezza su alcuni punti su cui le persone non pratiche di comunicazione continuano a insistere, sbagliando completamente. Su tutti, la questione dei “9 milioni di budget” è finalmente spiegata bene. Mea culpa (e colpa di molti del settore che hanno commentato la campagna) non aver spiegato una cosa che – deformazione professionale – mi sembrava ovvia, cioè la differenza tra “budget media” (cioè i soldi investiti per comprare gli spazi in cui fisicamente piazzare la pubblicità/comunicazione, cioè i 9 milioni) e compenso per l’agenzia che (ignoro, ma è comunque un ordine di grandezza in meno nella cifra)
3 – Purtroppo, per quanto chiarificatrice e scritta bene, la pagina si incarta in una delle scuse più puerili e insostenibili degli ultimi anni, a cui ricorrono tutti quelli che pestano un merdone: “bene o male, purché se ne parli”.
È un cliché che non funziona, seppellito dai fatti (al di là del mondo del trash televisivo e della politica nazionale, l’awareness a tutti i costi, che non tiene conto del gradimento delle persone, non è un dato rilevante; anzi, più passa il tempo più è evidente che nell’epoca contemporanea il giudizio del pubblico è più importante della popolarità a prescindere) e indifendibile da decenni. Ne abbiamo già parlato più volte, qui sopra (per esempio qui sul mio blog, in occasione di un fail comunicativo di Parah).
Sia chiara una cosa: in quell’agenzia sanno tutti benissimo che il “purché se ne parli” è una stupidaggine che non ha senso. Lo usano lo stesso, come cortina di fumo per chi non è pratico di comunicazione (e se non cambia idea, non pratico di vita) e ancora dice “ne parlano tutti: è una campagna di successo!”.
4 – Alla fine le critiche sguaiate e fuori fuoco di chi non fa parte del mondo della comunicazione hanno fatto il gioco di chi ha prodotto la campagna: è bastato rispondere a quelle per evocare un senso di “non ci avete capito niente, tornate a casa”.
Questo avviene, per esempio, nella parte della pagina in cui si parla del video di racconto per la campagna scambiato per spot. Nel caso, nel post sul mio blog relativo alla campagna il video di presentazione è trattato e commentato come tale.
5 – Sì, al testo manca una pennellata (con un pennello grande) di umiltà: se un intero paese, chi per sentimento, chi con qualche ragione tecnica, chi per senso estetico, ecc. dà addosso a un lavoro creativo, il dato non può essere trascurato e non può essere risolto con la stoccata passivo-aggressiva del tipo “un immenso reparto creativo di milioni di persone al lavoro sullo stesso concetto”, aka “un paese di allenatori della Nazionale”. Anche perché la pubblicità è rivolta alle persone comuni, quelle che nella quasi totalità dei casi non possiedono strumenti analitici per ricevere la comunicazione: la prendono come viene e reagiscono in modo immediato, superficiale ed emotivo. Se non funziona, non funziona e non esistono pubblicitari incompresi: ci sono pubblicitari che non hanno saputo farsi comprendere.
“Pubblico di merda” ce lo facciamo dire solo dagli Skiantos.
6 – Continuo a non trovare i crediti della campagna, cioè i nomi e i cognomi dei creativi, degli strateghi, ecc. che, all’interno dell’agenzia, hanno contribuito a crearla. Normalmente è una comunicazione che esce subito, insieme al comunicato stampa di annuncio della campagna. Qui non c’è ancora niente.
Mi chiedo se questo avviene per proteggere i singoli da gogne immeritate (alla fine se lavori in agenzia a volte ti tocca contribuire a campagne in cui non credi, perché è il tuo lavoro e ti devi adeguare) o se c’è in effetti un po’ di imbarazzo da parte dei singoli a firmare una campagna accolta così male urbi et orbi.
7 – Personalmente, fossi stato l’agenzia, non avrei detto niente. O forse avrei scritto qualcosa di più umano e meno sussiegoso e passivo/aggressivo di quei “grazie” piccati.
Avrei detto che nel 2023 è sano, giusto e contemporaneo che la comunicazione nasca dall’ascolto e che il sentimento collettivo, ripulito da tutti gli errori di chi non è del mestiere, è un tesoro prezioso per capire dove va il mondo.
Questo non vuol dire che i creativi e le agenzie non abbiano in mano il pallino della strategia e della creatività, ma significa che chi decide come fare una campagna deve sapere bene (e deve avere ascoltato bene e di recente) cosa si dice là fuori.
Le campagne, soprattutto quelle importanti, spesso si mettono “in test”, cioè si fanno vedere a gruppi ristretti di persone divisi per target, in contesti di analisi e ricerca, e si vede come reagiscono. I test non sono strumenti precisissimi, ma su campagne così platealmente problematiche danno indicazioni chiare. In questo caso credo non siano stati fatti. O sono stati fatti male.
Avrei anche scritto che l’interesse di tanti per il tema è segno che il Turismo è qualcosa che è sentito molto dalla popolazione italiana e forse l’orgoglio per la bellezza di questo paese è una delle ultime ragioni di “sentimento patriottico” ancora al riparo dai danni della retorica e dalla miseria dei fatti.
E che forse il racconto di un’Italia bella e profonda (qui il racconto è quello di un’Italia di superficie, che non si sposta di un millimetro dalla cartolina, dagli stereotipi, ecc.) passa proprio dall’intelligenza collettiva, dalla capacità di chi sa valorizzarla “in prossimità”.
8 – Il tema di come comunicare questo paese a livello turistico è lungo ed è oggetto di discussioni decennali. Leggere cosa dicono figure rilevanti ed esperte in questo mondo come Roberta Milano o Gianluigi Tiddia credo possa dare un’idea della complessità del dibattito.
Quello che mi sento dire, da comunicatore non specializzato in turismo (in 30 anni ci ho lavorato un po’, ma non ne ho mai fatto una competenza “verticale”) è che il difetto strutturale della campagna “Open to Meraviglia” è proprio il suo essere “quantitativa”, cioè basata sul portare attenzioni e flussi turistici verso le solite mete, quelle abusate, affollate, piene di centurioni con la spada di plastica, ristoranti con gli “spageti bolognaise”, trappoloni acchiappaturisti e stereotipi a pioggia.
Insomma, è il sistema turistico stesso ad augurarsi che una campagna così non abbia successo, perché il settore ha bisogno di un turismo diverso, più profondo, meno banale, che non affolli le solite mete (spesso ben oltre i limiti di saturazione), che dia spazio alla qualità della vita e alle esperienze meno massificate, che attragga paradossalmente meno turisti, ma più disposti a spendere, più alla ricerca di esperienze reali e autentiche, più aperti a scoprire l’Italia e non la sua copia triste in gesso, nei banchi dei souvenir.
Il paese, insomma, non ha bisogno di una campagna di sell-out, come “Open to Meraviglia”. Serve l’esatto contrario: una campagna di ri-posizionamento dell’Italia verso l’alto, fuori dalle solite mete, verso un altro tipo di turismo.
È una campagna decisamente più difficile che dire “Visit Venezia, it’s so romaaaantic” con o senza testimonial imbarazzanti.
Prevede una certa quota di coraggio. E prevede che il Ministero ascolti il settore turistico (che avrebbe chiesto esattamente questo, al di là dei grandi gruppi che campano col turismo “un tanto al chilo”).
Qui nessuno ascolta nessuno. E i risultati si vedono.
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