Basteranno la dura reprimenda di Mario Draghi durante la conferenza stampa del 4 agosto e l’articolo 42 del decreto legge “Aiuti-bis” a convincere le imprese del settore energetico a versare i 10 miliardi (su 11 previsti) di incassi che mancano all’appello? Lo scopriremo poco dopo il 31 agosto, termine concesso ai contribuenti per l’eventuale ravvedimento operoso.
Il clamoroso flop di questa misura era stato sottolineato anche dallo stesso Draghi davanti ai giornalisti.
“Non è tollerabile che in questo momento ci sia un settore che elude una disposizione del governo”, fu il duro commento del Presidente che presentò un primo pacchetto di interventi correttivi. Infatti in quel decreto si dimezzano le sanzioni al 15% per chi si ravvede entro il 31 agosto, per poi raddoppiarle al 60% per versamenti successivi. In quell’occasione, Draghi aggiunse che, in caso di risposta insufficiente, sarebbero arrivate ulteriori restrizioni.
Reazione prevedibile dopo che l’acconto del 30 giugno aveva fornito la miseria di 900 milioni su 4,2 previsti. Ciò aveva portato i tecnici del Mef a ridurre prudenzialmente di circa 9 miliardi le entrate disponibili in bilancio.
Eventi largamente prevedibili che avevamo portato all’attenzione dei nostri lettori già il 22 marzo scorso – come al solito in largo anticipo e in quasi totale solitudine – al momento dell’annuncio della misura. Infatti, non c’era nemmeno bisogno di un master in diritto tributario per rendersi conto che la fretta aveva partorito molti gattini ciechi.
A partire dall’entità delle entrate previste. Com’è possibile che un’imposta aggiuntiva – perché di questo si tratta, aldilà del suadente nome di “contributo straordinario di solidarietà” – del 25% possa fornire quasi un terzo del gettito totale IRES? Pare quindi esserci già una sovrastima in partenza, anche considerando che si considerano solo 7 mesi da ottobre 2021 ad aprile 2022, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A cui si è poi aggiunto un comportamento delle imprese coinvolte che sembra essere proprio una scelta deliberata. Va infatti notato che delle 11mila imprese del settore energetico interessate, circa il 98% sono medio piccole e, secondo i calcoli del Mef, avrebbero dovuto generare metà del gettito. L’altra metà era attesa da giganti del settore (A2A, Edison, Eni, Enel, ecc…) società quotate e con sistemi di governance societaria sicuramente tra i più evoluti e stringenti. Insomma, qui non siamo in presenza di elusione, come sostenuto da Draghi, ma di eventuale sottrazione al pagamento di un’imposta perché la si ritiene infondata giuridicamente e è scelto di attendere l’atto di accertamento, la conseguente cartella esattoriale ed impugnare il tutto davanti ai giudici tributari. In quella sede sollevare l’eccezione di incostituzionalità e portare la vicenda davanti alla Corte Costituzionale. Si è verosimilmente trattato del prudente apprezzamento degli amministratori di quelle società che hanno ritenuto, in quel modo, di difendere gli interessi dei rispettivi azionisti. È prevalentemente saggezza anziché elusione che, al limite, potrebbe intervenire al momento del calcolo della base imponibile. Su questo fronte, in poche settimane, siamo già a due documenti dell’Agenzia delle Entrate che sono entrati nel dettaglio delle modalità di calcolo dell’imposta ed hanno subito svelato le tante sfumature interpretative che possono portare le imprese a subire un minore o maggiore aggravio impositivo.
Tutto questo perché si è scelto di calcolare gli extraprofitti su uno strano coacervo che è distante anni luce da una corretta misura di capacità contributiva. In altre parole, se si sceglie di misurare la febbre poggiando la mano sulla testa anziché usare il termometro, è altamente probabile che ne esca fuori un pasticcio. Alcune letture saranno sovrastimate ed altre sottostimate. Ed è quello che è accaduto prendendo come riferimento la differenza tra operazione attive e passive ai fini IVA e considerandole una misura degli eventuali extraprofitti. Approssimazione che non avrebbe consentito il superamento di un esame universitario di economia aziendale o diritto tributario, è invece finita in Gazzetta Ufficiale. E su cui i giudici costituzionali potrebbero far cadere la loro scure.
A peggiorare ulteriormente il quadro, si stanno poi manifestando gli effetti tossici della sentenza della Corte Costituzionale del 2015 che ha bocciato un’addizionale IRES sulle imprese energetiche (Robin Hood Tax), negando però il diritto al rimborso per le imprese che avevano già versato. Dividendo irragionevolmente i contribuenti in due categorie: chi non aveva versato ed aveva visto riconosciute le proprie ragioni davanti alla Corte e chi lo aveva fatto ed era rimasto inciso definitivamente dall’imposta incostituzionale.
Con tale precedente, chi si azzarderebbe oggi a versare la maggiore imposta richiesta da Draghi, rischiando di vedersi negato il rimborso in caso di successo davanti ai giudici della Consulta?
Da ultimo, non appaiono destinate ad un grande successo le ultime misure restrittive del Governo. Infatti chi non ha versato gli acconti al 30 giugno, non lo ha ragionevolmente fatto per motivi di mancanza di liquidità, per cui potrebbe sfruttare la finestra offerta dal governo versando il 31 agosto. Lo ha fatto, come in precedenza spiegato, sulla base di accurate valutazioni sulla assoggettabilità all’imposta della propria impresa.
Cosa dovrebbe cambiare tra il 30 giugno ed il prossimo 31 agosto nelle valutazioni di chi non ha versato? Le imprese dovrebbero essere scosse dal tono intimidatorio di Draghi, che le ha esposte al discredito sociale accusandole di affamare le famiglie bisognose di aiuti?
Basterà attendere qualche settimana. O forse qualche mese, quando un nuovo governo potrebbe riscrivere la norma in modo da renderla conforme alla nostra Carta.