Sia gli Stati Uniti che la Cina hanno interesse a contrastare i cambiamenti climatici. Si tratta del resto di un fenomeno che non ha confini, come scrive il Diplomat, giornale specializzato in questioni asiatico-pacifiche: le emissioni a Tianjin influenzano le temperature in Texas e viceversa. Per questo motivo, molti vedono nell’azione climatica una delle poche occasioni di cooperazione tra Washington e Pechino, e pensano che l’obiettivo comune per la riduzione delle emissioni di carbonio possa portare i due paesi a definire politiche complementari.
COMPETIZIONE E COOPERAZIONE
La realtà però è più complicata di così, nota bene il Diplomat. Ed è più facile che anche sul clima ci sarà uno scontro piuttosto che una cooperazione.
Innanzitutto perché la neutralità carbonica non è un argomento neutro, ma uno degli strumenti utilizzati dagli stati per promuovere la propria immagine nel mondo e accrescere l’influenza internazionale. L’America di Joe Biden, ad esempio, ha voluto alzare fino al 50-52 per cento la quota di riduzione delle emissioni al 2030 per mettere pressione e colpire la reputazione di chi non si adegua perché non vuole o non può.
La questione climatica, poi, si intreccia profondamente con la competizione tecnologica al centro delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, e può pertanto aprire nuovi fronti nella corsa tra le due potenze per il primato economico e l’influenza internazionale.
DOMINARE LE TECNOLOGIE DEL FUTURO
C’è appunto una “corsa alle tecnologie pulite”, scrive il Diplomat, parlando di come la Cina oggi domini il mercato dei pannelli solari grazie a dispositivi dal basso costo – il frutto di politiche di sussidi statali –, che hanno avuto il merito di ridurre il prezzo dell’energia solare ma hanno anche creato delle frizioni commerciali: già prima di Donald Trump, l’amministrazione di Barack Obama aveva imposto dei dazi anti-dumping.
Ci sono poi le batterie, utilizzate nei veicoli elettrici e fondamentali per lo stoccaggio dell’energia prodotta in maniera intermittente dalle fonti rinnovabili. Quasi il 70 per cento delle batterie degli ioni di litio al mondo sono prodotte in Cina. Assieme al 45 per cento delle turbine eoliche.
“Non c’è motivo per cui le pale per le turbine eoliche non possano essere costruite a Pittsburgh invece che a Pechino”, ha detto Biden durante il suo primo discorso al Congresso, mercoledì notte. Spiegando la necessità per l’America di “sviluppare e dominare i prodotti e le tecnologie del futuro” e menzionando “batterie avanzate, biotecnologie, chip per i computer, energie pulite”.
“Siamo in competizione con la Cina e con gli altri Paesi per vincere il XXI secolo […]. Dobbiamo competere più strenuamente di quanto non abbiamo fatto”.
IL NODO DELLE FILIERE
Gli Stati Uniti dipendono pesantemente dalle catene del valore cinesi e vedono questa condizione come un rischio: non a caso, di recente l’amministrazione Biden ha avviato una revisione delle filiere per le tecnologie cruciali per la sicurezza nazionale, batterie e materie prime incluse.
Oltre a portare la manifattura delle tecnologie “sostenibili” il più possibile in patria per non far arricchire la Cina, Biden ha in mente un riassetto delle supply chains per non esporre gli Stati Uniti al rischio di ritorsioni da parte del loro concorrente strategico numero uno.
La ristrutturazione delle filiere pensata dalla Casa Bianca per renderle più “corte” e più “sicure” passa allora per il Nordamerica (Canada e Messico) e per gli alleati asiatici nell’Indo-Pacifico: Australia, Giappone e India si stanno muovendo in questo senso.
MEDIO ORIENTE E AMERICA LATINA
La competizione per le tecnologie pulite e per il primato nell’industria dei veicoli elettrici non sarà soltanto bilaterale ma si giocherà anche in mercati terzi situati in regioni tradizionalmente sotto l’influenza di Washington.
Ad esempio in Medio Oriente, dove Pechino è il maggiore finanziatore e operatore di progetti di energia rinnovabili in paesi come l’Arabia Saudita, Dubai o l’Egitto. Ma anche in America latina, dove nel 2020 la Cina ha realizzato un quarto di tutte le acquisizioni globali nel settore energetico latinoamericano, investendo soprattutto in Bolivia, Argentina, Cile e Perù, che possiedono oltre la metà delle riserve mondiali di litio, un metallo fondamentale per la realizzazione delle batterie.
Nel 2020 gli investimenti cinesi in energie pulite nel contesto della Belt and Road Initiative – il grande piano infrastrutturale inaugurato nel 2013 – sono ammontati a 11 miliardi di dollari. Di contro, nello stesso gli Stati Uniti hanno destinato 2 miliardi al sostegno di iniziative “verdi” nei paesi in via di sviluppo.
UNA CONCORRENZA SANA
Ma la competizione non deve essere interpretata come un qualcosa di esclusivamente negativo. Il Diplomat nota ad esempio che una “sana” concorrenza tra America e Cina permetterebbe di ridurre i costi delle tecnologie pulite e di ridurre i livelli di emissioni di gas serra, a beneficio di tutti.