Oggi l’Osservatorio ha il piacere di presentarvi il quarto capitolo del dossier “Coronavirus: sfide e scenari”, dedicato alla discussione con Alessandro Aresu della difesa degli asset strategici del sistema-Paese italiano nel pieno della crisi sanitaria ed economica del coronavirus. Aresu, nato a Cagliari nel 1983, è consigliere scientifico di Limes e direttore scientifico della Scuola di Politiche. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano i saggi “L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia” (con Luca Gori, Il Mulino, 2018) e “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina” (La Nave di Teseo, 2020)
Tra “economia di guerra” e discussioni su possibili guerre economiche nelle ultime settimane la discussione politico-mediatica su cosa è da definire “asset strategico” per il sistema Paese è tornata d’attualità. Dalla Consob al Copasir, tra allarmi per rischi di scalate straniere e blocchi delle vendite allo scoperto a Piazza Affari, assistiamo a un incremento del perimetro dei settori messi sotto osservazione. Come giudica questi sviluppi?
Vivevamo già in una “corsa globale ai sistemi di controllo degli investimenti esteri”, come definita in un bel libro curato da Giulio Napolitano. Una corsa che ha coinvolto l’Italia. L’evento cruciale rimane l’intervento sulla normativa nel 2017, per il caso Vivendi – Tim. In quel caso il governo ha applicato il concetto più pervasivo dei poteri speciali a una vicenda intraeuropea.
Nei miei lavori su golden power e asset strategici ho sempre sottolineato quest’elemento, che è cruciale: il paradosso è che uno strumento normativo nato per adattarsi alle regole europee individua, dal punto di vista geopolitico, alcuni nodi conflittuali interni all’Unione Europea. Questi nodi, invece di ridursi, aumentano: quindi vanno riconosciuti e affrontati.
Secondo aspetto: l’Italia si trova nel mezzo della grande questione della nostra epoca, la competizione tra Stati Uniti e Cina. La corsa al controllo degli investimenti esteri è parte di una più ampia “corsa alla sicurezza nazionale”, che si colloca all’interno di questo conflitto. Questo ha implicazioni sulle telecomunicazioni, sul 5G, sulle forniture. Ha comportato un altro adattamento normativo.
Terzo aspetto: l’Italia è più debole quando è colpita da una crisi, per ragioni finanziarie. Chiaramente, anche in una crisi cosiddetta “simmetrica”, conta da che posizione ci arrivi, come i mercati giudicano la tua posizione e la solidità complessiva del sistema in cui sei collocato. Altra discussione, altro adattamento. Più pressante.
Su questi temi, nel corso di questa legislatura, il Copasir ha lavorato con uno spirito di ampia condivisione, all’unanimità, con Guerini prima, con Volpi ora. Questo è un punto positivo, che rafforza il suo operato.
A tornare è sempre il tema del primato della protezione sugli affari, della proiezione geopolitica dei sistemi-Paese sull’economia. Ne parla nel suo saggio più recente, di cui in futuro discuteremo su queste colonne. I “cigni neri” delle ultime settimane accelereranno questa tendenza?
Sono processi già in corso, appunto, per cui la crisi attuale funziona come acceleratore. Una crisi che in termini di valori azionari ma soprattutto di operatività delle aziende ha un impatto enorme, che credo sarà molto più ampio della crisi di più di un decennio fa.
Inoltre, la crisi ha avuto una cronologia diversa, un calendario differente nei vari Paesi. Ha visto svilupparsi conflitti geopolitici su aiuti, contratti e doni; polemiche sui dati e sulla loro raccolta; battaglie sul tracciamento; ripercussioni sulle catene globali del valore; allargamento della sicurezza nazionale intesa come “sicurezza nazionale sanitaria”. E, oltre alla “corsa” per il vaccino e per altri aspetti del settore biomedicale, vedremo molti altri acceleratori di conflitti, negli scontri industriali. Ne parlerò anche nel prossimo numero di Limes. Quindi bisogna mantenersi lucidi per analizzarli e comprenderne le implicazioni.
Non è facile, peraltro. È un momento difficile, duro. Personalmente, nei primi giorni non riuscivo a riflettere bene su questi temi, perché sentivo la sopraffazione del peso di quello che ci sta capitando. Poi ci si ferma un secondo e si riconosce che ci sono sempre tanti temi appassionanti su cui concentrarsi, e si continua a vivere.
In Italia da tempo studiosi come Giuseppe Berta sottolineano come il capitalismo nazionale debba cercare nuovi paradigmi. La necessità di uno “scudo” strategico in momenti di crisi segnala la debolezza dei nostri campioni nazionali? Come veniamo a patto con la nostra fragilità finanziaria in questi frangenti?
È uscito su “L’Industria” un bel saggio di Ugo Pagano che discuto anche sull’ultimo numero di “Pandora“. Pagano aiuta a vedere un paradosso della stagione di privatizzazioni. In realtà, le grandi imprese quotate con controllo pubblico hanno mantenuto e aumentato il loro rilievo, rispetto all’impresa privata. Pagano ne loda anche la governance. La grande impresa italiana pubblica quotata è forte, rispetto alle aziende private italiane. Sono invece piccole rispetto ai competitor, con parziali eccezioni. Nei momenti di crisi, questo è un tema da considerare.
Io, rispetto a Beppe Berta, che è un amico e un maestro, sono più statalista. Ho sempre sostenuto che per l’Italia il “fantasma dell’Iri” sarebbe tornato. Perché abbiamo un problema di competenze manageriali e industriali che la fine dell’Iri ha lasciato aperto. Se avessimo il management di Telecom nei primi anni ’90, sarebbe meglio. Purtroppo, non esiste più. D’altra parte, lo statalismo deve essere sempre realista, e in relazione con i capitali privati. Non è che arriva un’entità statale o parastatale che si compra tutto, in modo indiscriminato: sarebbe folle, oltre che irrealistico, considerando che dobbiamo anche attirare investimenti esteri. Il problema decisivo italiano è quello della dimensione di impresa, su cui occorre quadrare il cerchio tra risparmio e investimento. Tra la forza del risparmio italiano e gli investimenti necessari per crescere. Secondo me – ma non sono obiettivo, sono cose alle quali ho lavorato – era importante la strada di strumenti come Pir, Spac, su cui purtroppo c’è stata eccessiva incertezza normativa.
Sapete quanto fattura l’azienda italiana che fa respiratori (alla quale dobbiamo essere grati) rispetto al “campione” tedesco di quel settore? Circa un trecentesimo.
Il “golden power” sulle acquisizioni è un esempio di strumento di cui si parla per tutelare con organicità il sistema produttivo. Quali sono le prospettive di rafforzamento dei “poteri speciali”?
Fino a qualche mese fa eravamo in pochi a parlare di “golden power”, mentre ora è un tema all’ordine del giorno e coinvolge un dibattito più ampio. È un bene. Gli interventi del governo, secondo la mia personale opinione di analista, hanno la giusta ratio e vanno nella giusta direzione. Corrispondono alle prospettive delineate dalla comunità di studiosi del tema. La discussione sull’ambito finanziario e assicurativo c’è da tempo, la crisi ha aggiunto un’attenzione specifica per filiere logistiche, alimentari, sanitarie, nonché una preoccupazione per interventi a prescindere dal processo formale di notifica. È importante l’attenzione alla catena del valore biomedicale, oltre a una migliore definizione del concetto di minaccia anche nell’ambito intraeuropeo. Si verificherà al meglio dal punto di vista giuridico che nessuno possa minacciare l’Eni, che chiaramente in questo scenario dell’energia affronta sfide enormi. Anche se non sono convinto che un’azienda francese o olandese possa veramente cercare di scalare l’Eni in modo ostile. Un’operazione ostile del genere verso l’Italia, in qualunque situazione, sarebbe una cosa enorme dal punto di vista diplomatico: una minaccia alla sovranità nazionale che nessuno nel nostro Paese dovrà mai accettare.
Vorrei dire però che tutto questo ha senso solo se facciamo altri due ragionamenti.
Il primo è il passaggio “e dopo?”. Mi spiego.
Blocchi un investimento. E dopo? Prescrivi condizioni sull’acquisizione di una società. E dopo? Entri in quella società con un veicolo pubblico. E dopo?
Per esempio, in Tim i passi “speciali” sono stati fatti. E ora, l’azienda crea valore in modo soddisfacente, valore per gli azionisti, valore sociale, valore tecnologico? È importante porsi queste domande.
Bisogna sempre chiedersi “e dopo?” quando si agisce su un asset. Occorre quindi avere una cultura diffusa che consenta di farlo. Fare analisi di scenario, ragionare in termini anticipatori, non solo reattivi, rafforzare la cultura industriale e la consapevolezza geopolitica, per sapere cosa bisogna fare. Il golden power è uno strumento giuridico basato sull’individuazione di minacce, poi ci sono le politiche industriali, la strategia di un Paese, c’è il capitalismo italiano come è realmente, c’è il modo con cui ci si pone rispetto ai grandi shock.
Gli shock possono cambiare il senso dei settori strategici, in alcuni casi limitati. Per esempio, in anni precedenti a me è sempre sembrato sbagliato che i veicoli di Cassa Depositi e Prestiti dovessero intervenire in Parmalat (non è avvenuto) oppure, come hanno fatto, acquistare quote “segnaletiche” delle società alimentari. I soldi del risparmio postale sono limitati, perché li devo spendere in chi fa cibo (per non parlare degli alberghi) se poi non investo con attenzione nella filiera dell’automotive, nell’aerospazio, nelle scienze della vita, in altri settori ad alta tecnologia di grande importanza? Ci sono aziende alimentari private importanti (anche in diversi distretti meridionali), non è che deve arrivare un’entità statale a prendersi la quota cosiddetta “segnaletica”. Oggi, l’importanza della filiera alimentare, l’accumulazione di riserve alimentari degli Stati, la competizione su questi temi, può indurre a ripensare questa convinzione.
In ogni caso, se tutto è strategico, nulla è strategico. Dobbiamo mantenere una consapevolezza delle differenze tra i settori. Non è che facciamo intervenire il governo o l’intelligence su tutti i mobilifici d’Italia. Anche perché le risorse sono limitate: le stesse risorse umane della sicurezza nazionale, sicurezza economica e sicurezza fisica. Sul fronte economico, bisogna pensare seriamente a rafforzare alcune capacità in materia di ristrutturazione aziendale, perché a un certo punto quel mercato diventerà molto forte e lì potrebbero esserci fenomeni predatori diffusi.
(Intervista a cura di Andrea Muratore e Ivan Giovi pubblicata su Osservatorio Globalizzazione)