Il Centro Europa Ricerche (Cer), che realizza analisi per le principali autorità e istituzioni nazionali, ha presentato oggi un rapporto sullo scenario energetico internazionale intitolato Il grande gioco dell’energia: verso un equilibrio non cooperativo. Lo studio, come si legge nelle prime pagine, “ha ricevuto il sostegno finanziario di Energy Foundation China”.
Il Cer srl è presieduto dal banchiere Matteo Arpe e vede nel comitato scientifico tra gli altri gli economisti come Paolo Guerrieri, Giorgio Barba Navaretti, Giorgio di Giorgio, Antonio Pedone, Andrea Resti e Pierluigi Ciocca.
CHE COS’È LA ENERGY FOUNDATION CHINA
Energy Foundation China è un ente con sede in California ma dedicato allo sviluppo sostenibile della Cina: svolge un ruolo di finanziatore, facilitatore e consulente strategico per progetti di riduzione delle emissioni, di miglioramento della qualità dell’aria e in generale di “crescita verde”.
L’Energy Foundation China è supervisionata dal governo cinese, più precisamente dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma. Presidente e amministratore delegato della fondazione è Ji Zou, già vicedirettore generale del programma climatico della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma.
UN MODO DIVERSO PER CALCOLARE LE EMISSIONI, SECONDO IL CER
Il rapporto del Cer dedica un capitolo di otto pagine, l’ultimo, alla “lunga marcia cinese verso la decarbonizzazione”: la Cina è il paese responsabile della maggiore quantità di emissioni di gas serra, oltre il 30 per cento del totale mondiale, ma si è impegnata a raggiungere la neutralità carbonica (la condizione di azzeramento netto delle emissioni) entro il 2060, dieci anni dopo la data generalmente fissata dalle economie avanzate come l’Unione europea e gli Stati Uniti.
Nel capitolo in questione, al di là di qualche aggettivo forse di troppo (“la straordinaria crescita”, “l’enorme sforzo”), viene proposta una diversa modalità di conteggio delle emissioni, non su base statale bensì pro capite.
“Ad oggi”, scrive il Cer, “le emissioni di anidride carbonica vengono calcolate in base alla produzione, un metodo di calcolo che purtroppo presenta una serie di importanti semplificazioni che spesso portano a valutazioni politiche superficiali, se non addirittura errate. Secondo l’istituto RIE-Ricerche Industriali ed Energetiche, se le emissioni fossero conteggiate al livello dei consumi e non della produzione, l’entità delle loro riduzioni (se non il segno) muterebbe”. Il Cer scrive che i paesi europei, mentre riducevano l’impronta carbonica delle loro economie, delocalizzavano le produzioni industriali – e le emissioni associate ad esse – nelle nazioni in via di sviluppo, re-importando i prodotti finiti.
La conclusione del ragionamento, in sostanza, è che la responsabilità primaria delle emissioni – e dunque la “colpa”, secondo una certa narrazione – è dell’Occidente, e non della Cina; di conseguenza, è l’Occidente e non la Cina a doversi assumere la maggior parte dell’onere della decarbonizzazione.
A detta del CER, “un corretto calcolo delle emissioni di CO2, oltre ad essere effettuato in termini di consumo pro capite, dovrebbe probabilmente tenere conto dell’evoluzione intervenuta nella divisione internazionale della manifattura e del lavoro nel corso degli ultimi decenni che evidenzia una contrazione della base produttiva di alcuni paesi di più antica industrializzazione in favore di un marcato aumento dell’attività produttiva in paesi di recente industrializzazione”.
Stando ai calcoli dell’Unione europea, che nel 2021 è valsa il 7,3 per cento delle emissioni globali di CO2 (contro il 32,9 per cento della Cina e il 12,5 per cento degli Stati Uniti), le emissioni europee pro capite sono di 6,2 tonnellate di CO2 a persona. Le emissioni pro capite cinesi sono di 8,7 tonnellate a persona e quelle statunitensi di 14,2 tonnellate.
Il calcolo pro capite non è necessariamente più “corretto” di quello totale. Inoltre, la deresponsabilizzazione cinese per le emissioni (e la colpevolizzazione europea e statunitense) dimentica il fatto che la Cina si è arricchita fino a diventare la seconda maggiore economia globale anche grazie alla manifattura per l’esportazione: non a caso il paese veniva chiamato “la fabbrica del mondo”.
LA RICHIESTA DELLA CINA
La Cina non vuole farsi dettare i tempi e i modi della decarbonizzazione dai governi stranieri, in particolare da quello statunitense, con il quale esiste un rapporto di competizione politica e industriale che riguarda anche la transizione energetica.
La Cina è contemporaneamente la più grande produttrice di energia dalle fonti rinnovabili e dal carbone. Nel 2022 le autorità hanno approvato la costruzione di ben 106 GW di nuova capacità a carbone: un valore altissimo che, pur necessario alla stabilizzazione della rete elettrica, ha fatto dubitare della serietà dell’impegno di Pechino per il clima. L’Agenzia internazionale dell’energia ha stimato che nel primo semestre del 2023 la domanda di carbone sia aumentata dell’1,5 per cento a livello globale, specificando che il traino cinese e indiano ha sovracompensato i minori consumi negli Stati Uniti e in Europa.
“Probabilmente”, scrive il Cer nel suo rapporto, “la Cina, così come altre realtà asiatiche in via di sviluppo a partire dall’India, potrà accettare un accordo vincolante [sulle emissioni, ndr] a condizione che esso si basi su un principio – ragionevole – e cioè che siano le economie più sviluppate, quelle a più alto reddito pro-capite e che soprattutto inquinano da più tempo, ad abbattere in misura maggiore le emissioni di anidride carbonica”. È una conclusione molto gradita, probabilmente al governo cinese.