«I venti sono miti e il sole splende», dicono suppergiù i cinesi per indicare una serena giornata di primavera. Anche nell’industria delle rinnovabili fa bel tempo in Cina; è l’Europa che rischia di finire scoperchiata dalla bufera.
Mentre infatti i maggiori costruttori cinesi di turbine eoliche consolidano la loro posizione in patria, le aziende europee – come Ørsted e Siemens Energy – si trovano in difficoltà economiche o addirittura in crisi. La situazione non è migliore nel settore fotovoltaico: Meyer Burger, ad esempio, ha fatto sapere che potrebbe presto chiudere la fabbrica di Freiberg, in Germania, uno dei più grandi siti manifatturieri di dispositivi solari di tutto il Vecchio continente.
Sono brutte notizie per l’Unione europea, visto che proprio il solare e l’eolico sono le due fonti centrali nei piani di transizione ecologica e di neutralità climatica. Ad oggi il 95 per cento dei pannelli solari installati nel blocco sono stati precedentemente importati dalla Cina. Anche gli operatori eolici faticano a reggere la concorrenza con i cinesi, le cui turbine costano la metà. Carlos Tavares di Stellantis avverte che l’industria automobilistica occidentale «scomparirà sotto l’offensiva» di Pechino. Elon Musk di Tesla pensa che le case cinesi «demoliranno» le rivali se non verranno alzate barriere commerciali. C’è dell’evidente opportunismo nelle loro parole, ma anche un fondo di verità.
Oltre ad abbattere le emissioni di gas serra, lo scopo del Green Deal – in quanto erede della cosiddetta “Unione dell’energia” – è garantire all’Europa una maggiore sicurezza energetica. Gli stati membri hanno già pagato la sottovalutazione di questo concetto con l’invasione dell’Ucraina, che ha reso evidenti i rischi di un affidamento troppo grande a un fornitore malevolo. Dopo gli sforzi fatti per affrancarsi dal gas russo, però, la transizione ecologica potrebbe rimettere l’Unione europea in una condizione di dipendenza da una nazione autoritaria e potenzialmente ostile: la Cina.
Sarà una dipendenza diversa, di tipo tecnologico-industriale più che energetico in senso stretto, ma comunque pericolosa. Pechino domina le filiere di tutti i dispositivi necessari alla rivoluzione della “sostenibilità” (batterie, pannelli solari, turbine eoliche, veicoli elettrici…) fin dai materiali di base (litio, cobalto, nichel, terre rare, polisilicio…). «Domina» è la parola giusta, visto che le quote cinesi di manifattura e raffinazione di questi prodotti sono generalmente superiori al 70 per cento del totale mondiale, con picchi anche al di là del 90 per cento.
In assenza o quasi di alternative, esiste insomma la possibilità che la transizione ecologica metta l’Europa (e non solo) in una condizione di dipendenza industriale dalla Cina. Nel peggiore dei casi, questa subordinazione potrebbe mettere a rischio la sicurezza nazionale ed economica, qualora la Repubblica popolare decidesse di limitare o bloccare le forniture per trarne un vantaggio politico. Mosca lo ha fatto più volte nella storia; perché Pechino non dovrebbe? Le prime avvisaglie, peraltro, ci sono già state con le restrizioni all’esportazione di grafite.
Qualcuno potrebbe replicare, rielaborando un famoso detto di Deng Xiaoping, che non importa se il pannello solare e la batteria siano cinesi o europei; l’importante è che decarbonizzino. Da una prospettiva climatica, è vero: se l’obiettivo finale è tagliare le emissioni nel minor tempo e al prezzo più basso possibili, il protezionismo rischia al contrario di far salire i costi della transizione e disincentivare l’adozione delle clean tech.
È un ragionamento indubbiamente sensato, ma parte da una premessa a mio parere errata: la transizione energetica ha molto più a che vedere con la leadership mondiale che con la lotta al riscaldamento globale. Se così non fosse, per quale motivo gli Stati Uniti hanno approvato una legge da 369 miliardi di dollari – l’Inflation Reduction Act – per stimolare con soldi pubblici la manifattura nazionale di batterie, pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, elettrolizzatori, reattori modulari, macchinari di cattura del carbonio e quant’altro? Per quale motivo la Commissione europea si è mossa in maniera simile con il Net-Zero Industry Act? E perché Joe Biden ha detto – già nel 2021 – che gli americani devono «sviluppare e dominare i prodotti e le tecnologie del futuro. Batterie avanzate, biotecnologie, chip per i computer, energia pulita»? E perché Ursula von der Leyen ha voluto garantire che «la storia dell’economia delle tecnologie pulite sarà scritta in Europa»?
Perché, a differenza del colore del gatto di Deng Xiaoping, la provenienza delle clean tech è importante. Ed è importante perché la transizione energetica è innanzitutto una rivoluzione industriale e una competizione geopolitica: come non può esistere sostenibilità senza posti di lavoro, così non può esserci futuro senza tecnologia e industria; non un futuro da grande potenza mondiale, perlomeno.
Dietro alla formula net-zero emissions si nasconde quindi una contesa sulle risorse, sull’innovazione e sulla logistica. La conversione energetica si accompagna al desiderio degli stati di guadagnare vantaggi sugli altri: l’Unione europea contro la Cina, la Cina contro gli Stati Uniti, gli Stati Uniti contro l’Unione europea. Gli sconfitti di questa “rivoluzione industriale verde” dovranno fare i conti con la disoccupazione e l’irrilevanza, mentre chi avrà la meglio otterrà ricchezza economica e influenza internazionale. Dalle tecnologie per la transizione ecologica dipende non soltanto il futuro del pianeta, ma il destino delle nazioni.
È la conclusione a cui sono giunto attraverso il mio lavoro e che ho cercato di esporre e argomentare in un libro: si intitola Power. Tecnologia e geopolitica nella transizione energetica. La prefazione è di Simone Pieranni.
(L’intervento è stato pubblicato sulla newsletter Appunti di Stefano Feltri. Ci si iscrive qui)