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Petrolio, ecco cosa nasconde la guerra tra Arabia Saudita e Russia

Petrolio: fatti, analisi e scenari sulle tensioni tra Arabia Saudita e Russia

La “guerra dei prezzi” tra Arabia Saudita e Russia, scoppiata il 6 marzo scorso e responsabile del più grande crollo del petrolio dal 1991, potrebbe non essere davvero una guerra. Al contrario, potrebbe trattarsi di una strategia a lungo termine di Riad, che finirebbe col cambiare profondamente il mercato energetico.

L’ANTEFATTO

Tutto è iniziato il 6 marzo a Vienna con il fallimento del vertice dei Paesi esportatori di petrolio. L’Arabia Saudita (leader dell’Opec) non è riuscita a convincere la Russia (un attore energetico cruciale, seppur esterno al cartello) ad aderire ad un accordo per la riduzione dell’output di greggio.

Secondo Riad, i tagli erano necessari per sostenere i prezzi dei barili ed equilibrare il mercato: l’offerta, cioè, doveva adeguarsi al calo della domanda causato dall’impatto della Covid-19 sui trasporti e sulla produzione industriale. Secondo Mosca, invece, contenere la produzione e spingere i prezzi verso l’altro sarebbe stato controproducente, perché avrebbe favorito i rivali americani: grazie allo sfruttamento delle riserve di shale, oggi gli Stati Uniti sono infatti i primi produttori di petrolio al mondo e si avviano a diventarne anche degli esportatori netti.

Il rifiuto della Russia di partecipare ai tagli ha condannato l’accordo. Per punire Mosca – nel contempo alleata e avversaria: il loro rapporto è complicato –, l’Arabia Saudita ha quindi deciso di offrire forti sconti sul suo petrolio. Ha fatto anche di più: ha annunciato che a partire dal prossimo 1° aprile aumenterà la produzione a 12,3 milioni di barili al giorno, un record, con l’obiettivo di espanderla fino a 13 milioni.

L’OBIETTIVO DI RIAD

Gli analisti hanno spiegato che l’obiettivo dell’Arabia Saudita è colpire quanto più duramente possibile la Russia in un arco di tempo ristretto, in modo da costringerla a sedersi nuovamente al tavolo dei negoziati.

La tesi è sensata, e sostenuta ad esempio dal notevole aumento delle esportazioni di greggio saudita – venduto peraltro a prezzi stracciati – verso l’Europa, un mercato fondamentale per Mosca. Riad inoltre non può permettersi una lunga fase di bassi prezzi del petrolio: se è vero che può contare su costi di estrazione davvero minimi (neanche 3 dollari al barile), d’altra parte il bilancio del regno è molto dipendente dalle rendite petrolifere. Se alla Russia bastano circa 42 dollari al barile per far quadrare il budget, all’Arabia Saudita ne servono oltre 80.

UNA STRATEGIA A LUNGO TERMINE?

Mosca non dispone della stessa spare capacity di Riad, ovvero della capacità di attingere a larghe riserve di petrolio per modulare a piacimento l’output. Ma è forse meglio preparata per assorbire i danni della “guerra dei prezzi”.

A meno che non si tratti davvero di una guerra lampo, quanto piuttosto di una lotta darwiniana per la sopravvivenza. L’Arabia Saudita – come spiega un articolo di Bloomberg – starebbe forse imponendo una lunga fase di alta offerta e di bassi prezzi del petrolio a tutti gli altri esportatori. Solo i Paesi in grado di competere in un quadro simile riusciranno ad uscirne vivi: e gli Stati Uniti, che hanno costi di produzione alti, potrebbero non esserne in grado.

Riad compirebbe così un rovesciamento della sua politica energetica: sfruttare a fondo le proprie riserve di greggio, invece che conservarle per generazioni. Lo scopo è fare profitto vendendo tanti barili a basso costo, conquistando le quote di mercato dei produttori che non riescono a stare al passo, prima che la richiesta di petrolio inizi a calare a causa della transizione energetica verso fonti più pulite.

Il prezzo da pagare però potrebbe essere molto alto – forse eccessivamente – anche per la stessa Arabia Saudita. Se il resto dell’Opec dovesse iniziare ad inondare il mercato con ulteriori barili, i prezzi precipiteranno ancora, compromettendo il bilancio del regno. Dal lato della domanda, va ricordato, non sembra poi esserci particolarmente fermento.

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