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Petrolio

Perché Emirati e Arabia Saudita litigano sul petrolio. Parla Tabarelli (Nomisma Energia)

I prezzi del petrolio sono già saliti sopra i 76 dollari al barile a causa del litigio nell'Opec tra l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Ecco cosa sta succedendo e perché (con il commento dell'economista Davide Tabarelli di Nomisma Energia)

 

Questa mattina il prezzo del petrolio West Texas Intermediate (il riferimento, o benchmark, americano) è arrivato a 76,98 dollari al barile, il massimo dal novembre 2014. Il valore del Brent (il benchmark per il mercato europeo) è salito invece a 76,23 dollari al barile: non era mai stato così alto dalla fine del 2018.

COSA C’È DIETRO ALL’AUMENTO DEI PREZZI DEL PETROLIO

Dietro alla salita dei prezzi c’è lo scontro interno all’OPEC+, il gruppo che raccoglie ventitré dei principali paesi esportatori di greggio, sia interni (come l’Arabia Saudita) che esterni (come la Russia) allo storico cartello. Lunedì l’OPEC+ ha interrotto la sua riunione senza trovare un accordo – e senza nemmeno fissare una data per un nuovo incontro – in merito all’aumento della produzione di petrolio, che era stata limitata l’anno scorso in risposta al crollo della domanda energetica causato dalla pandemia di coronavirus. Ora però l’economia mondiale e la mobilità si stanno riprendendo e c’è richiesta di petrolio.

I POSSIBILI RISCHI PER LA RIPRESA E I CONSUMATORI

Le possibili conseguenze di uno stallo prolungato all’OPEC+ – il litigio è tra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – sono due: il primo è che il mondo resti a secco di combustibile con cui alimentare la ripresa; il secondo è che la minore disponibilità di greggio sul mercato spinga ancora più in alto i prezzi dei barili, e di conseguenza il costo delle merci per i consumatori.

TABARELLI (NOMISMA ENERGIA): NON SI ARRIVERÀ A UNA FRATTURA NELL’OPEC

Secondo Davide Tabarelli, professore all’Università di Bologna e presidente della società di ricerca energetica Nomisma Energia, gli Emirati non sono però “così stolti da far saltare l’accordo” con gli altri produttori dell’OPEC+.

“La notizia del litigio lascia intendere che vi sia una frattura all’interno dell’OPEC+ e che quindi si arriverà a una situazione in cui tutti apriranno i rubinetti. In realtà questa situazione non ci sarà”, secondo Tabarelli. “Gli annunci di facciata sono solo una parte degli accordi dell’OPEC. Dietro c’è una riflessione: litighiamo prima un po’ ma non buttiamo l’accordo, così intanto i prezzi vanno su; diamo la colpa agli Emirati per il litigio, e poi dopo ci mettiamo d’accordo”.

PERCHÉ ARABIA ED EMIRATI LITIGANO SUL PETROLIO

D’altra parte, prosegue Tabarelli, “uno scontro di questa dimensione sorprende. Ma sapevamo che gli Emirati volevano qualcosa di più”.

Il litigio tra Riad e Abu Dhabi ruota intorno ad una cosa: “gli Emirati vogliono produrre di più di quanto concordato l’anno scorso”, dice Tabarelli. Ad aprile del 2020 l’OPEC+ ha infatti fissato delle quote massime di produzione petrolifera tra i vari membri, per bilanciare un mercato stravolto dalla pandemia ed evitare un surplus di offerta: si decise che questo sistema di ripartizione delle quote sarebbe restato in vigore fino all’aprile del 2022.

Vista però l’evoluzione della pandemia e il miglioramento del contesto economico mondiale, ad aprile del 2021 l’OPEC+ ha deciso di aumentare la sua produzione complessiva di 2 milioni di barili al giorno per il periodo maggio-luglio. Alla riunione di lunedì – quella interrotta – il gruppo avrebbe dovuto trovare un accordo per ampliare ulteriormente l’offerta di altri 400mila barili al giorno a partire da agosto.

Su questo punto, gli Emirati sono d’accordo. Non sono d’accordo invece con la proposta avanzata da Arabia Saudita e Russia – i due membri principali dell’OPEC+, quelli che fungono da coordinatori, nonostante le tensioni – per estendere il sistema delle quote massime di produzione fino alla fine del 2022.

Le quote sono state assegnate sulla base della capacità produttiva dei vari membri. Ma la capacità degli Emirati è cresciuta molto di recente – “da 3,2 a 4 milioni di barili al giorno”, ricorda Tabarelli –, e il paese si sente troppo penalizzato, perché costretto a contenersi più degli altri. Chiede allora che la propria quota massima di produzione venga portata da 3,2 a 3,8 milioni di barili al giorno.

PERCHÉ L’ARABIA SAUDITA È CONTRARIA

“Da quando è stato fondato l’OPEC, l’Arabia Saudita ha il ruolo di regista del gruppo per il semplice fatto che è il paese membro con la capacità produttiva inutilizzata più grande”, spiega l’economista ed esperto di energia.

In virtù del suo ruolo di coordinatore, dunque, Riad respinge la richiesta di Abu Dhabi – il quarto maggiore produttore del cartello – perché non vuole ritrovarsi a dover accontentare anche altri membri scontenti delle quote imposte loro. Se tutti iniziassero a produrre più di quanto stabilito, verrebbe meno il ruolo dell’OPEC, e quindi dell’Arabia Saudita, come garante della stabilità del mercato petrolifero.

LE AMBIZIONI DEGLI EMIRATI

Il governo di Abu Dhabi sta spendendo circa 25 miliardi di dollari all’anno per portare la propria capacità produttiva di petrolio a 5 milioni di barili al giorno entro il 2030. L’obiettivo è utilizzare le entrate petrolifere – corpose, perché il paese può contare su bassi costi di produzione – per finanziare la diversificazione dell’economia al di là del greggio: la tendenza globale, infatti, è al distacco dalle fonti fossili e rappresenta un rischio alla stabilità dei petro-stati.

Gli Emirati, in sostanza, non vogliono veder sprecate le risorse investite e non vogliono perdere tempo. Bassi livelli produttivi potrebbero poi danneggiare le società e i gruppi finanziari esteri che hanno investito negli asset petroliferi emiratini.

LE AMBIZIONI DELL’ARABIA SAUDITA

Tra emiratini e sauditi c’è una rivalità economica, come scrive Reuters. Anche l’Arabia Saudita vuole del resto reinventarsi al di là del petrolio e vorrebbe sottrarre agli Emirati la posizione di hub commerciale, imprenditoriale e turistico della regione. L’ambizione dell’Arabia è insomma quella di fare di Riad la nuova Dubai: per realizzarla, sta cercando di convincere le aziende straniere – anche con una certa aggressività – a trasferire le proprie sedi regionali sul suo territorio entro il 2024.

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