L’Opec+, l’organizzazione capeggiata dall’Arabia Saudita e dalla Russia che riunisce alcuni dei principali paesi esportatori di petrolio, ha annunciato che nel mese di agosto aumenterà la sua produzione di 548.000 barili al giorno. La decisione ha sorpreso gli analisti, che si aspettavano una crescita più contenuta dell’output, in linea con i valori – 411.000 barili al giorno in più – già stabiliti per i mesi di maggio, giugno e luglio. Anzi: a settembre l’Opec+ potrebbe immettere sul mercato altri 548.000 barili al giorno in più. L’eventuale misura, che verrà discussa alla riunione del 3 agosto prossimo, rappresenterebbe un’inversione completa – e in anticipo: un anno prima del previsto – della politica di contenimento volontario della produzione introdotta nel 2023 con lo scopo di sostenere i prezzi del petrolio.
COME VANNO I PREZZI DEL PETROLIO
A proposito di prezzi, l’annuncio dell’aumento dell’offerta da agosto ha fatto calare le quotazioni del Brent (il contratto di riferimento internazionale basato sul mare del Nord) intorno ai 68 dollari al barile e quelle del West Texas Intermediate (il benchmark statunitense) sui 66 dollari. Stando alle analisi delle banche Goldman Sachs e JpMorgan Chase, però, nei prossimi mesi il prezzo del petrolio potrebbe scendere verso i 60 dollari per via del calo dei consumi cinesi e delle ripercussioni economiche dei dazi imposti dal presidente americano Donald Trump.
SICUREZZA E INCERTEZZA
Per il momento, comunque, il mercato petrolifero sembra essere in grado di ricevere questo aumento dell’offerta senza ripercussioni negative sui prezzi, che se scendessero troppo danneggerebbero i produttori. Ma le cose potrebbero cambiare nei prossimi mesi: l’amministrazione Trump ha fatto sapere che i dazi su un gran numero di paesi entreranno in vigore il 1 agosto (anziché il 9 luglio) e il presidente ha detto di stare valutando una tariffa aggiuntiva del 10 per cento su tutte le nazioni vicine alle “politiche anti-americane dei Brics”.
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Nonostante l’incertezza, l’Opec+ scommette sull’aumento dei consumi di petrolio legato alla cosiddetta driving season, cioè l’estate, la stagione in cui gli americani si muovono e guidano di più per il paese per raggiungere i luoghi delle vacanze. Tra i membri dell’organizzazione la più sicura pare essere l’Arabia Saudita, che infatti ha alzato i prezzi di vendita della sua qualità principale di greggio sui mercati asiatici: se fosse preoccupata per le capacità di assorbimento del mercato, probabilmente non avrebbe agito in questo modo.
TRUMP FESTEGGIA, MA…
L’aumento dell’offerta di petrolio è un’ottima notizia per Trump perché il calo dei prezzi potrebbe permettere di ridurre il costo della vita per i cittadini statunitensi: la sua agenda energetica punta infatti a garantire bassi prezzi dell’energia ai consumatori e contemporaneamente a stimolare i produttori, ma le due cose possono entrare in contraddizione.
Uno scenario di bassi prezzi del greggio potrebbe rivelarsi dannoso per i petrolieri americani perché molti di loro potrebbero non riuscire a riportare profitti sotto i 60 dollari al barile, perlomeno nei campi di shale oil più vecchi e meno produttivi: dovrebbero aprirne di nuovi, ma il contesto è poco favorevole agli investimenti in nuova capacità estrattiva.
Il rischio è che, se i prezzi dovessero precipitare, gli Stati Uniti possano perdere quote nel mercato petrolifero, che finirebbero nelle mani dei paesi dell’Opec+ più efficienti sotto il profilo dei costi: sarebbe un danno proprio per la energy dominance americana inseguita da Trump. Alcuni dirigenti di aziende di shale oil hanno già detto di prevedere meno trivellazioni nel 2025.
QUAL È IL GIOCO DELL’ARABIA SAUDITA?
Nonostante i bassi costi di produzione, l’Arabia Saudita ha bisogno di alti prezzi di vendita del petrolio – sopra i 90 dollari al barile – per coprire la spesa pubblica e finanziare il costoso piano di trasformazione economica voluto dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Riad sta sacrificando il proprio bilancio pur di accontentare Trump, o ha davvero fiducia nel mercato?