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Ex Ilva

Chi sono i veri colpevoli della morte dell’Ilva a Taranto. Il commento di Cazzola

Il tragico destino dell’ex Ilva non è imputabile soltanto a un governo che rivela ogni giorno di più la sua impotenza. Il commento di Giuliano Cazzola

Il tragico destino dell’ex Ilva non è imputabile soltanto a un governo che rivela ogni giorno di più la sua impotenza, tanto da gettare alle ortiche un’operazione di politica industriale che avrebbe potuto garantire non solo la sopravvivenza, ma anche il rilancio della più importante acciaieria europea (dopo ben sette anni di crisi indotta in uno stabilimento attivo e produttivo) e l’avvio del risanamento ambientale a Taranto.

L’avvenuta soppressione dello ‘’scudo penale’’ sarà stato anche un pretesto afferrato al volo da Arcelor Mittal per svincolarsi dagli impegni assunti con il governo; ma non è certamente un problema secondario di cui, in quel contesto, qualsiasi ‘’gestore’’ degli impianti potrebbe fare a meno. I responsabili dell’impresa franco-indiana non hanno agito strumentalmente.

“Qualcuno investirebbe 3,6 miliardi – ha denunciato un bravo sindacalista come Marco Bentivogli – in uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo? In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?”.

Nessun colpo di scena, dunque. Fin dallo scorso mese di giugno, visto il tira-molla sulla norma, l’azienda aveva avvertito che, senza la garanzia dell’immunità penale, non sarebbe stato possibile mantenere il cronoprogramma concordato in palese conflitto con gli obblighi imposti dalle ordinanze della magistratura tarantina. E quindi la multinazionale avrebbe fatto retromarcia, restituendo gli stabilimenti presi dapprima in affitto, per acquisirli poi in proprietà. Della necessità di uno “scudo penale’” ce ne accorgeremo subito, appena la struttura tornerà ad essere affidata ai commissari straordinari, i quali non avrebbero mai accettato e svolto quell’incarico senza la garanzia dell’immunità.

La stessa cosa faranno tutti quelli che, eventualmente, fossero chiamati a sostituire gli attuali. In queste settimane di catastrofe annunciata abbiamo avuto la prova del fatto che “la madre degli imbecilli è sempre incinta”. Quali problemi risolverebbe la nazionalizzazione? Di certo, a parte gli oneri che lo Stato dovrebbe accollarsi, nemmeno degli amministratori pubblici potrebbero, senza subire conseguenze penali, dar corso alle prescrizioni della magistratura, nei tempi da essa stabiliti, con modalità ritenute non solo impossibili, ma contrarie alla sopravvivenza degli impianti.

E i sindacati? Stanno a guardare. Del resto, che cosa d’altro potrebbero fare? Quando in una guerra non s’individua la roccaforte del nemico, ma s’insiste nell’attaccare obiettivi secondari, ci si logora senza ottenere risultati. L’ex Ilva è una vittima della magistratura tarantina. Se la procura di Milano vuole andare a fondo nella ricerca delle responsabilità di una vera e propria sciagura economica, deve indagare i colleghi ionici per la loro linea di condotta. E i sindacati farebbero bene a dare a Cesare quel che gli spetta. Ormai è tardi anche per prendere quelle decisioni che andavano assunte, dai sindacati e dai lavoratori dell’ex Ilva, fin dal 2012, quando iniziò, sotto l’offensiva della procura, il calvario dello stabilimento.

A chi scrive – in questi giorni – è tornato in mente un episodio: il caso giudiziario di Erich Priebke. Il 1º agosto 1996, il Tribunale militare di Roma, pur riconoscendo la responsabilità dell’imputato (allora capitano delle SS e vice di Herbert Kappler, comandante della Gestapo nella capitale) per la strage perpetrata alle Fosse Ardeatine, ritenne che allo stesso si dovessero applicare le attenuanti generiche, dichiarò di «non doversi procedere, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione» e ordinò l’immediata scarcerazione di Priebke. Si trattava di una questione giuridica molto complessa, intricata quanto la storia dell’imputato che era stato arrestato ed estradato dall’Argentina, dove si era rifugiato, dopo la fuga dall’Italia grazie alla protezione – si disse – delle gerarchie ecclesiastiche.

Nella giurisprudenza dell’immediato dopoguerra si era sempre tenuto conto della disciplina militare e riconosciuta una sorta di “stato di necessità” per i militari subordinati, costretti a obbedire agli ordini dei loro superiori. Nel processo a suo carico, a Kappler fu riconosciuto, ad esempio, che le leggi di guerra legittimavano la rappresaglia per la strage di via Rasella, ma fu condannato per aver esorbitato nel numero delle vittime  (alcune in più di quelle stabilite dallo Stato Maggiore tedesco). Parlare di questa vicenda, oggi, desta in chi scrive un sentimento di ripudio per la brutalità della guerra e delle sue leggi; ma la storia va raccontata per quello che è. La sentenza del 1° agosto 1996 suscitò le proteste dei parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine che si ribellarono insieme con la comunità ebraica di Roma, dando vita a una manifestazione guidata dal presidente Riccardo Pacifici che costrinse i giudici a restare assediati in aula fino a notte fonda.  Erano le 18,10. La folla inferocita assediò il tribunale militare. Il presidente Agostino Quistelli si chiuse nel suo ufficio, dicendo che non intendeva “uscire come l’ arbitro venduto”.

Intorno alle 21, nell’ufficio del procuratore militare, arrivarono il ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick (divenuto in seguito presidente della Consulta), il sottosegretario alla Difesa, Massimo Brutti, il questore di Roma, allo scopo di sbloccare la situazione. Alle 2,15 del 2 agosto l’ex ufficiale delle SS fu arrestato per ordine del ministro. Gli avvocati della difesa rilevarono “la preminente rilevanza del ministro Flick nel decidere l’ arresto, proprio lui che deve garantire l’ assenza di interferenze nell attività giudiziaria”. Il caso Priebke si concluse solo con la sua morte (al compimento dei 100 anni) nel 2013. La rievocazione, in questa sede, di quella storia intende soltanto rammentare quella ribellione popolare che non esitò a sequestrare un collegio giudicante fino a quando non ottenne ciò che, per quelle persone, significava ‘’fare giustizia’’, anche a costo di violare una sacralità che si ritiene al di sopra del bene e del male. Fiat iustitia et pereat mundus è un paradosso. Perché non esiste giustizia in un cimitero.

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