Due dei cinque gasdotti principali per il rifornimento del gas naturale russo all’Europa transitano per l’Ucraina. Dopo l’interruzione della funzionalità di quello “Della Fratellanza” nel 2014, ne rimane in parziale funzione sul territorio ucraino solo quello dell’Urengoj, che prende nome dall’enorme giacimento di gas della Siberia occidentale, oggi in competizione con quello settentrionale dello Yamal. Esso entra in Ucraina dalla regione russa di Kursk, dopo essere transitato dalla stazione di pompaggio di Sudža, occupata dagli ucraini nei primi giorni del loro attacco di sorpresa del 6 agosto.
Dal gasdotto sono transitati nel 2023, 14,5 mld di mc di gas naturale, rispetto ai 32 della sua capacità, destinati soprattutto a Austria, Ungheria e Slovacchia, secondo gli accordi del 2019, che scadono a dicembre di quest’anno, presi fra Gazprom e il governo di Kiev. I contraenti si sono dichiarati contrari a rinnovarli. Per i diritti di transito del gas, il governo ucraino ha ricevuto, sempre nel 2023, 1,54 bn $.
Il gasdotto fornisce circa la metà del gas naturale russo ancora importato dall’Europa (quasi il 4% del suo consumo) a cui va aggiunto il 15% dell’import di gas naturale liquido (LNG), che dovranno anch’esse cessare nel 2027, anno in cui l’UE prevede la fine delle importazioni russe di idrocarburi. Già ora Mosca ha difficoltà a esportare tutto il gas che produce e usa una parte delle sue metaniere per lo stoccaggio.
LA CONQUISTA DI SUDZHA E L’IMPATTO SUI PREZZI DEL GAS
La conquista da parte ucraina della stazione di Sudža ha provocato speculazioni del tutto ingiustificate sul prezzo del gas, aumentato del 6% alla borsa di Amsterdam. Esse hanno giocato sul timore dell’interruzione dei flussi di gas conseguenti alla conquista della città. Le riassicurazioni sia di Kiev che di Gazprom non sono state credute. Eppure, se gli ucraini avessero voluto interrompere il gasdotto Urengoj avrebbero potuto bloccare i tubi sul loro territorio, come già avevano fatto nel 2014 in occasione dell’occupazione russa della Crimea. Altrettanto avrebbero potuto fare i russi più a monte.
LA VITA TRAVAGLIATA DEL GASDOTTO “TRANSIBERIANO”
Il gasdotto dell’Urengoj ha sempre avuto un’esistenza politicamente travagliata. Chiamato anche “Transiberiano” o “Siberiano Occidentale” è un’opera colossale, lunga 4.500 km, con tubi dal diametro di 1,42 m e una capacità di transito si 32 mld di mc di gas.
La sua costruzione fu iniziata nel 1983, con una forte opposizione dell’Amministrazione Reagan, che assunse toni violentissimi nei confronti della Germania, con sanzioni USA a carico del consorzio bancario tedesco e francese che l’aveva finanziata. Secondo Richard Pearle, responsabile USA dei controlli tecnologici (soprannominato “Angelo Nero” da coloro che incorrevano nelle sue ire e pesanti sanzioni), il suo introito in valuta pregiata avrebbe consentito all’URSS l’acquisto illecito in Occidente di tecnologie strategicamente critiche (il cui costo era di 5 volte superiore a quelle non sottoposte agli embarghi, durante la guerra fredda imposti dal CoCom di Parigi e oggi, in modo più soft, dal Council of Trade and Technology di Chicago).
In ogni modo, il governo tedesco non si fece piegare dalle pressioni americane e il gasdotto entrò in piena funzione nel 1996 e iniziò ad essere ammodernato nel 2011, per essere poi chiuso per le sanzioni europee nei confronti del Cremlino, prima nel 2014, poi in modo completo nel 2022. La sua riattivazione richiederà ingenti lavori (almeno un anno e mezzo per essere completati) e consistenti finanziamenti non disponibili né a Gazprom né al governo ucraino. La sua chiusura completa non inciderà sul soddisfacimento della domanda ucraina di gas, dati i numerosi piccoli giacimenti gasieri esistenti sul suo territorio, ammesso ma non concesso che non vengano disattivati dall’offensiva aerea russa contro il sistema energetico di Kiev.